Pierpaolo Ciccarelli, Laicismo e persecuzione. Abbozzo di una fenomenologia dello «spazio assiologico»
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¶ 3 Leave a comment on paragraph 3 0 È nota l’opinione di alcuni cattolici secondo cui, nel mondo «secolarizzato», i credenti verrebbero fatti oggetto di persecuzione. Non intendiamo con ciò riferirci al dato di fatto, riguardo al quale non sussiste ovviamente controversia, che in alcuni Paesi i cristiani cadono spesso vittima dell’intolleranza. Ci riferiamo ad un’altra tesi, contestata da una parte degli stessi cattolici, secondo cui chi oggi è credente si sente discriminato rispetto a coloro che, non essendo credenti, si trovano perfettamente a loro agio a vivere in un mondo – come si dice – «senza Dio». Sul fatto che le cose stiano effettivamente così, i pareri sono ovviamente discordi. Da parte laica, infatti, non mancano coloro che lamentano proprio il contrario: oggi sarebbe in atto, non già una nuova persecuzione dei cristiani, ma un’offensiva della Chiesa cattolica contro le istituzioni laiche. Anche da parte laica, dunque, si avverte un clima di persecuzione. Questa controversia tra laici (o, come gli avversari li definiscono in tono reprobativo, «laicisti») e cattolici ci dà lo spunto per riflettere sul rapporto tra il «laicismo» (o la «laicità», sia consentito di considerare i termini semanticamente equivalenti, evitando così una distinzione che, per ragioni che chiariremo, ci appare elusiva) e il fenomeno della «persecuzione»: una questione su cui tanto ai laici quanto ai cattolici, o – onde evitare clichés – a tutti coloro che sono interessati a capire le ragioni del proprio modo di vivere e di pensare, converrà fare chiarezza.
¶ 4 Leave a comment on paragraph 4 0 C’è un nesso tra laicismo e persecuzione? Il passato sembra dare al riguardo un’indicazione chiara: la persecuzione ha costituito storicamente il motivo per cui è sorto il laicismo. Subito, però, si presenta una difficoltà dovuta alla differenza prospettica che inevitabilmente si frappone tra il nostro presente e il passato. Oggi, infatti, la parola ‘laico’ è intesa dal parlante di lingua italiana come sinonimo di ‘secolare’, ‘profano’, ‘aconfessionale’, dunque come un antonimo di ‘religioso’. Osservato nella prospettiva del presente, il passato si mostra perciò aggrovigliato, non lineare, poco comprensibile. Nel corso della storia, infatti, ad esser perseguitati sono stati tanto coloro che facevano professione di fede cristiana, quanto coloro che, in nome di un’altra fede, o di un diverso sentimento della medesima fede, o dell’ateismo, si opponevano ai dogmi di chiesa. Nel suo andamento non lineare, non geometrico, quindi, la storia presenta la religione come una causa sia del laicismo sia della persecuzione. A voler ‘attualizzare’ il passato – come sovente si esorta a fare –, si corre in realtà il rischio di cadere in anacronismi, che, più che a chiarire, contribuiscono a rendere confuso che cosa sia propriamente ‘attuale’. È forse meglio, allora, cominciare con il marcare la distanza, più che la prossimità, tra il nostro tempo e quello trascorso. È preferibile, cioè, riferirsi al passato non per attualizzarlo, ma, al contrario, per mettere scompiglio tra le certezze del senso comune di cui il linguaggio è il principale veicolo. In questo caso, lo sguardo sul passato ci induce, più in particolare, a dubitare del fatto che il significato della parola ‘laico’ possa essere esaurientemente compreso opponendolo a quello di ‘religioso’. Vacilla, in altre parole, l’ovvietà dell’antonimia laico/religioso (e dunque anche laico/cattolico). Con ciò, però, non si può ancora dire che le cose risultino più chiare. Posto, cioè, che l’atteggiamento laico non possa essere definito semplicemente contrapponendolo a quello religioso, che cos’è, propriamente il laicismo? A chi o a che cosa si oppone il laico? Proveremo qui ad argomentare la tesi che l’opposto dell’atteggiamento laico non è quello religioso, è bensì l’atteggiamento persecutorio. Occorre, però, fare una precisazione riguardo al modo in cui svolgeremo il nostro ragionamento.
¶ 5 Leave a comment on paragraph 5 0 Il dibattito pubblico sul tema del laicismo si colloca in un quadro quasi esclusivamente culturale. Che cosa intendiamo con ciò, lo chiariremo subito con un esempio, tra i tanti che si potrebbero menzionare, che ci sembra emblematico. In una raccolta di scritti, pubblicata nel 2005 con il titolo Le ragioni dei laici, si possono leggere, tra gli altri, due istruttivi saggi, uno di Vincenzo Ferrone, l’altro di Pietro Scoppola, nei quali vengono avanzate due tesi storiografiche nettamente diverse. Ferrone argomenta la tesi espressa già nel titolo del suo contributo, «le radici illuministiche della libertà religiosa» (Le ragioni dei laici, a cura di G. Preterossi, Roma-Bari 2005, p. 57), e critica quegli storici cattolici secondo i quali il dualismo evangelico Dio/Cesare e il diniego opposto dai primi cristiani al culto dell’imperatore avrebbero avviato quel processo di desacralizzazione del potere che ha reso possibile il laicismo. Proprio a queste tesi storiografiche aderisce invece apertamente Scoppola, per il quale «la laicità ha nel cristianesimo le sue radici e le sue ragioni profonde» (ivi, p. 115). Non stupisce, ovviamente, la diversità, se non proprio l’antitesi tra questi due saggi, giacché il proposito del volume in cui essi appaiono è, come ben indicato dal titolo, quello di mettere in rilievo «le ragioni dei laici», al plurale. Anzi, è proprio questa diversità a renderne stimolante la lettura, giacché i dissensi storiografici restituiscono al meglio il volto mai lineare e geometrico della storia. Sarebbe quindi certamente incauto, qui, avanzare la pretesa che si decida una volta per tutte chi dei due abbia ragione. Nondimeno, la lettura di questi scritti in così netto dissenso sollecita una considerazione. Una considerazione che riguarda, non già il loro disaccordo, quanto invece il piano sul quale essi mostrano tacitamente di concordare. L’accordo sta, per così dire, nel ‘metodo’ con cui, non soltanto in questo volume ma in tanti altri interventi del dibattito pubblico, è affrontata la questione delle «ragioni dei laici»: il metodo dell’indagine storico-culturale. Si dà cioè per scontato che il laicismo consista essenzialmente in una dottrina sulla base della quale si è formata nel corso del tempo una determinata forma mentis culturale. Laico è dunque chi condivide tale dottrina, non laico, invece, chi la nega. Da questo presupposto di fondo muove tanto chi va alla ricerca della radice illuministica del laicismo quanto chi, invece, ne rintraccia le fonti primarie nell’insegnamento evangelico. Da questo presupposto – si badi – muovono anche coloro che, ostili al laicismo, ne segnalano la pericolosa affinità con il «nichilismo», ossia – di nuovo – con la cultura del «relativismo», dell’«agnosticismo», dell’«indifferentismo» morale, e via dicendo. Indipendentemente, dunque, dalla valutazione a cui, per tale via, si giunge, si dà luogo ad una sorta di ‘stilizzazione intellettualistica’ dell’atteggiamento laico: quasi che essere laico significasse anzitutto tirarsi dietro un bagaglio culturale, avere nella testa un insieme di rappresentazioni, idee, dottrine e precetti da applicare nelle diverse circostanze della vita pratica. Il non laico sarà di conseguenza chi ha un altro bagaglio culturale dal quale, all’occorrenza, tirerà fuori altre rappresentazioni, idee, dottrine e precetti. Caratterizzare il laicismo, e il suo contrario, all’interno di una siffatta prospettiva storico-culturale è certo possibile. Se ne comprende anche l’immediato vantaggio pratico: l’accertamento del possesso, o del non possesso, di certi requisiti culturali è uno strumento utilissimo sul piano della polemica ideologica. Senonché, collocandosi esclusivamente in questa prospettiva si rischia di omettere quello che, per chi non è impegnato o non trova interessante impegnarsi in polemiche ideologiche, è invece di sommo interesse capire. Si omette cioè di porsi la domanda: per quale motivo i laici sono laici? Sono laici perché, nel loro studio, hanno letto Voltaire? Oppure perché, nel prender parte a cerimonie liturgiche, hanno udito: «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»? O perché – come pure ci verrebbe da suggerire, qualora svolgessimo il discorso su questo piano –, avendo preso contatto con la filosofia greca, hanno inteso la differenza di principio tra physis e nomos?
¶ 6 Leave a comment on paragraph 6 0 A noi sembra che risposte di questo genere, in realtà, eludano la domanda. Ma la domanda è seria e come tale vorremmo ora prenderla, cominciando con una distinzione. Alla domanda sulle «ragioni del laici» si può rispondere in due modi diversi. Un modo è quello appena esemplificato: l’indagine dell’origine storica, ossia delle cause culturali di quell’insieme di principi che possiamo catalogare come «laici». Un altro modo di rispondere consiste invece nell’intendere, non l’origine culturale, ma la genesi dell’atteggiamento laico. Entro questa diversa prospettiva, la cosa decisiva è capire è il motivo per il quale si rende ad un certo punto praticamente necessario assumere tale atteggiamento. Si tratta dunque di intendere il senso del laicismo e non il suo contenuto dottrinale. Nessuno di questi due ‘metodi’ possiede la virtù che, con evidente ossimoro, si suole chiamare ‘forza della ragione’: né l’una né l’altra via riusciranno cioè mai a costringere qualcuno ad essere laico. Entrambe possono, al massimo, ambire a chiarire il problema del laicismo, preparando, così, il terreno del concreto agire pratico-politico. Ci sembra però che tra i due metodi vi sia una significativa differenza. Il metodo storico-culturale, muovendo dal presupposto che il laicismo consista essenzialmente in una dottrina (o anche in un insieme composito di principi dottrinali), prospetterà necessariamente il laicismo come un problema di scelte dottrinali. Il suo è, di conseguenza, un chiarimento che prepara ad una adesione ideologica. L’indagine sulla genesi dell’atteggiamento laico intende invece essere qualcosa di diverso. Essa intende chiarire, non già quale sia la dottrina più laica, bensì quale sia l’atteggiamento che fa sì che una determinata dottrina venga vissuta laicamente.
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¶ 8 Leave a comment on paragraph 8 0 Dunque, laicismo e persecuzione. Che si abbia in mente la persecuzione di cui i primi cristiani sono stati oggetto in epoca imperiale, o l’inquisizione cattolica o – per fare esempi contemporanei – l’efferata uccisione, nel 2004 in Olanda, del regista Theo van Gogh o l’attacco terroristico, nel 2015 a Parigi, alla sede di Charlie Hebdo, sempre e comunque si impone un dato: la persecuzione è una reazione a qualcosa che viene avvertito come una minaccia. Occorre qui fare lo sforzo, per quanto ciò possa risultare penoso e contrario alle nostre più intime convinzioni, di collocarsi nella prospettiva dei persecutori. I primi cristiani, il loro credo e il loro rifiuto di eseguire gli atti di culto nei confronti dell’imperatore furono avvertiti dai romani come una minaccia sociale e ciò ne motivò la cruenta repressione. L’adesione alle tesi copernicane da parte di Galileo faceva vacillare l’autorità della rivelazione e questo indusse il Sant’Uffizio a incriminarlo e costringerlo all’abiura. La denuncia dell’oppressione a cui sono costrette le donne nel mondo islamico nel cortometraggio Submission ha offeso gli integralisti islamici ed è questa offesa ad aver armato la mano dello spietato esecutore di Van Gogh. Non diversamente reattivo è il carattere delle altre azioni terroristiche che cupamente occupano le cronache. La persecuzione non è dunque soltanto un atto di sopraffazione, ma è, più precisamente, sopraffazione in difesa di un valore. Questo ci induce a riflettere su una proprietà caratteristica di ciò che chiamiamo «valore»: ogni valore ha una natura oppositiva. Il fatto che si possa arrivare a difendere un valore, accada ciò con le armi o anche soltanto con la penna, è dovuto alla natura stessa di ogni valore in quanto tale: ogni valore si oppone a un disvalore. Non si può credere in qualcosa se non opponendosi al credo opposto. Il «porgi l’altra guancia» evangelico è, al riguardo, paradigmatico: nel prospettare l’amore come reazione alla violenza esso esprime in modo icastico la carica oppositiva del valore cristiano della carità. Si pensi, ancora, al bacio, un atto di amore, con cui, nelle straordinarie pagine dei Fratelli Karamazov, Gesù reagisce alla condanna a morte inflittagli dal Grande Inquisitore. Che la reazione alla violenza sia, qui, non altra violenza, ma l’amore, non ne diminuisce il senso di reazione, ossia di azione ‘contraria’, dunque ‘opposta’ ad un’altra azione.
¶ 9 Leave a comment on paragraph 9 0 La domanda cruciale, giunti a questo punto, ci sembra questa: posto che la credenza in un valore ha una natura oppositiva o reattiva, qual è il rapporto tra forza e valore? Quale rapporto, cioè, tra il prevalere di fatto di un valore su un altro valore (con la forza, sia questa di natura coercitiva o soltanto persuasiva) e l’attitudine di ogni valore a contrapporsi ad un disvalore? Non è facile rispondere. Da un lato, infatti, è evidente che l’opporsi di un valore al valore contrario non è ancora il suo prevalere di fatto su questo. D’altro canto, però, l’analogia tra le due situazioni è evidente. La credenza in un valore implica infatti la volontà di renderlo effettivo, e ciò non può evidentemente avvenire altrimenti che facendolo prevalere sul valore opposto. Detto in altri termini: la «fede» in un valore, o – per usare un’espressione più consona alla cultura laica – l’«impegno» a suo favore ha un senso pratico, non soltanto teorico. Certo, si possono rendere i valori oggetto di considerazione teorica, come noi stessi stiamo qui facendo, oppure come fanno coloro che ne ricercano le radici storico-culturali in una determinata tradizione. Ma, a ben guardare, nell’atto stesso in cui consideriamo così i valori, ne neutralizziamo o, per così dire, ne ‘disinneschiamo’ la carica oppositiva. Dal programmatico sine ira et studio di Tacito fino alla tesi weberiana del carattere avalutativo della scienza, è stato da sempre evidente che lo sguardo teorico, o quello storico, per potersi esercitare, deve necessariamente sottrarre se stesso al ‘campo di tensione’ in cui ogni valore si trova per sua natura collocato. Ma questa evidenza, lungi dal risolvere la difficoltà, la rende ancor più drammatica. La rende più drammatica perché la neutralizzazione dei valori preclude l’accesso al loro senso più proprio. Il linguaggio di chi contempla i valori (o ne studia l’origine storica) non è il linguaggio della «fede» o dell’«impegno». Di qui, l’incomprensione tra gli uni e gli altri, o l’incoerenza in cui spesso cade chi avverte in sé entrambe le vocazioni, quella dello studioso e quella dell’uomo di fede o engagé.
¶ 10 Leave a comment on paragraph 10 0 Soffermiamoci ora a guardare il quadro che la riflessione fin qui svolta è andato tracciando. Il valore appare collocato in una sorta di luogo intermedio tra la forza e la teoria. Credere, o impegnarsi per un valore non è il puro e semplice atto, violento o non violento che sia, mediante il quale riusciamo a farlo prevalere su quello contro cui si volge il nostro impegno. Né, però, è una semplice e indifferente constatazione circa il sussistere di uno stato di cose. Questo luogo intermedio tra forza e teoria, che il valore si è venuto qui ritagliando, proponiamo di chiamarlo spazio assiologico. Si tratta del luogo a cui appartengono i «discorsi» (logoi) che riguardano ciò che è «degno» o «valido» (aksios). Si faccia però attenzione alla diversità dello spazio assiologico rispetto, da un lato, allo spazio teorico e, dall’altro, a quello della forza. Tutti e tre sono spazi discorsivi, sono cioè abitati dal logos, e in tutti e tre rientra il valore. La forza può configurarsi, oltre che come muta violenza, anche come discorso persuasivo, oppure, come accade nella sfera propriamente giuridica, come prescrizione normativa dotata di forza coercitiva. La teoria, da parte sua, può essere anch’essa ‘assio-logica’, ossia discorso dei valori, ma nel senso soltanto oggettivo del genitivo: i valori sono l’oggetto del discorso, il quale, da parte sua, non ha la connotazione oppositiva, reattiva del valore, ossia, come si è detto, è ‘avalutativo’. Nettamente diversa è l’«assiologia», vale a dire, la manifestazione discorsiva dei valori che accade nello spazio assiologico: qui l’espressione discorsiva è tutt’uno, o, per così dire, fa corpo con il valore che vi si manifesta. Ciò implica, a guardar bene, una conseguenza: l’assiologia è intrinsecamente «anti-logia», «discorso» (logos) che è «contro» (anti) un altro discorso, così come ogni valore si oppone a quello che, nel suo ambito, appare come il disvalore.
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Torniamo ora agli esempi della persecuzione che, secondo la nostra ipotesi di partenza, costituisce il motivo l’atteggiamento laico. Per intendere questo nesso di motivazione, occorre fare uno sforzo a cui sono di ostacolo le nostre più radicate convinzioni morali. Occorre vedere nella persecuzione, non soltanto quella che, di fatto, essa anche è, ossia una espressione della forza, anzi, come tristemente mostra la storia, della violenza bruta. Va cioè osservato che, intesa come espressione della forza, la persecuzione non è necessariamente qualcosa di opposto al laicismo. Benché le odierne lamentele di taluni cattolici circa la discriminazione dei credenti ci possano apparire inverosimili, esagerate, puramente strumentali, non c’è dubbio sul fatto che, in nome del laicismo, così come in nome di qualsiasi valore, si imprendano spesso crociate persecutorie. Basti, al riguardo, l’esempio storico della persecuzione dei comunisti negli Stati Uniti d’America propugnata dal senatore McCarthy in difesa dei valori democratici e liberali; oppure la «guerra preventiva» mossa contro i regimi teocratici del Medio-oriente dal governo degli Stati Uniti d’America al fine di «esportare» la democrazia. La distinzione con cui sovente si replica a tali esempi, la distinzione, cioè, tra «laicità» (buona perché moderata e tollerante) e «laicismo» (cattivo perché oltranzista) ci sembra che eluda completamente il problema. La distinzione che va fatta è invece quella suggerita dal realismo politico: la distinzione, cioè, tra laicismo-valore e laicismo-forza. Quest’ultimo può esprimersi in un ordinamento giuridico liberal-democratico, ma anche in un conflitto armato (si pensi, ad esempio, all’offensiva degli Alleati, o alla guerra di resistenza partigiana contro il Nazismo). Allo stesso modo, occorre distinguere tra persecuzione-valore (o ‘spirito persecutorio’) e persecuzione-forza (il martirio dei primi cristiani, i roghi degli eretici, i processi staliniani contro i presunti «nemici del popolo», il bando dagli uffici pubblici di tutti coloro che non avevano la tessera del partito fascista, o gli esempi di cronaca citati in precedenza). Sul piano della forza può ben accadere quel che attestano gli esempi, appena richiamati, del maccartismo e delle guerre in Medio-oriente, ossia che anche il laicismo si configuri come persecuzione. Soltanto se teniamo distinte le due dimensioni, quella del valore da quella della forza in cui ogni valore prima o poi inesorabilmente si traduce, riusciamo ad intendere quello che abbiamo chiamato il nesso di motivazione tra persecuzione e laicismo. Occorre cioè osservare persecuzione e laicismo nella loro appartenenza, non alla dimensione della forza, ma a quella assiologica, e quindi ‘anti-logica’ (nel senso prima chiarito della ‘anti-logia’, del contrapporsi dei logoi). Osservandoli così, ci accorgiamo, non soltanto che laicismo e persecuzione appartengono allo spazio assiologico, ma che la loro opposizione riguarda proprio questo stesso spazio assiologico. La persecuzione – intesa, ripetiamo, come valore – è quell’atteggiamento che avverte l’esistenza dello spazio assiologico come un pericolo. Di conseguenza, allorché si concretizzi nella dimensione della forza, la persecuzione assume la forma della limitazione o, nei casi peggiori, dell’annientamento della possibilità che sussista e si svolga l’antilogia, ossia il contrapporsi dei diversi valori nella sfera assiologica. Ad attestarlo è una peculiarità che, ad una osservazione attenta, si rivela propria del fenomeno della persecuzione. L’interesse primario dei persecutori non è rivolto ai comportamenti esterni, bensì alle «coscienze», a quello che nella tradizione giusnaturalistica moderna (Pufendorf) è chiamato forum internum, onde distinguerlo dal «foro esterno», ossia dai comportamenti osservabili di cui soltanto è competente il diritto. È infatti nel cosiddetto «esame di coscienza», ossia in quel momento che precede il nostro agire concreto, che avvertiamo con maggiore
vivezza il carattere oppositivo, anti-logico, diremmo quasi «eristico» (dal greco erizein, «contendere») dei valori. La «coscienza morale» è per antonomasia il luogo della discordia tra i diversi principi che avanzano la pretesa di condurci. Una contesa che si usa chiamare «dramma della scelta»: denominazione, a ben vedere, quanto mai fuorviante, giacché, in realtà, la contrapposizione che ha luogo nella coscienza morale tutto è tranne che «dramma», ossia (dal greco drama) «azione». La coscienza morale è, semmai, esitazione tra possibilità di agire in un modo o nell’altro. Esitazione che è tanto poco azione, da poterne invece essere, alle volte, la disperante paralisi. L’aspetto sconcertante della persecuzione sta, a ben vedere, proprio qui: poiché ciò che viene incriminato non è un comportamento, ma soltanto la coscienza o le «intenzioni», agli occhi del persecutore non fa alcuna differenza se l’accusato abbia di fatto compiuto o no una determinata azione. Vengono in mente, al proposito, le pagine dolorosamente straordinarie del romanzo di Arthur Koestler, Buio a mezzogiorno: il crimine del protagonista, vittima della persecuzione staliniana, è, non già di aver commesso azioni vietate dalla legge, ma di nutrire convinzioni potenzialmente pericolose, che possono cioè venir a contrasto con i comportamenti prescritti dalla legge. Ma, al riguardo, è significativa anche la vicenda delle presunte «armi di distruzioni di massa» di Saddam Hussein. L’indifferenza che l’amministrazione statunitense manifestò riguardo al fatto che tali armi, in realtà, non esistevano, attesta l’intento persecutorio della guerra: il crimine iracheno non consisteva cioè in azioni, ma soltanto in intenzioni.
¶ 12 Leave a comment on paragraph 12 0 Che cos’è, dunque, il laicismo? Non diversamente da qualsiasi valore, il laicismo ha una natura oppositiva. Esso si oppone all’invasione della coscienza propugnata dallo spirito di persecuzione. Il laicismo proclama cioè l’inviolabilità dello spazio assiologico, il che significa, in sostanza: preservarne il carattere di non risolto aut-aut. Ciò che sta a cuore al laico è, prima ancora che un determinato valore, la sfera stessa in cui i valori possono essere quello che essi anzitutto sono, ossia antilogie, espressioni discorsive contrapposte. Questo è il motivo del laicismo, questa, cioè, la ragione per la quale, nelle diverse circostanze storiche caratterizzate dal fenomeno della persecuzione, si è ritenuto necessario credere, o impegnarsi per esso. Tutto ciò potrà forse apparire una constatazione banale o, peggio, l’ammissione del difetto capitale che viene oggi (e da sempre) rimproverato al laicismo: l’ammissione, cioè, del suo intrinseco «agnosticismo», «relativismo», «indifferentismo morale», «nichilismo» ecc. A noi sembra che questa accusa sia – per dir così – da rispedire al mittente, aggiungendovi la seguente postilla circa la natura del «relativismo». «Relativista» è chi, ignorando quel luogo intermedio tra forza e valori che abbiamo chiamato «spazio assiologico», assume che i valori siano soltanto degli oggetti che, come tali, possono essere caratterizzati, a seconda dei casi, con il predicato dell’assolutezza o della relatività. Il relativismo è, in altre parole, una disposizione intrinseca all’atteggiamento teorico-contemplativo nei confronti dei valori. La controversia tra relativisti e antirelativisti si svolge esclusivamente sul piano teorico, che è, e non può non essere, un piano in sé relativista o, più esattamente, ‘relativizzante’, giacché la teoria è in se stessa la neutralizzazione della sfera assiologica. A guardare bene, invece, il tema dell’assolutezza può essere coerentemente tenuto fermo soltanto nello spazio assiologico, là dove, cioè, i valori non possono che presentarsi in termini assoluti. L’espressione discorsiva in cui, ad esempio, l’amore verso il prossimo si presenta come valore non è – si ripeta – la neutrale constatazione di un oggetto, né un concreto atto d’amore. È bensì l’amore che si contrappone all’odio o la cura che si contrappone all’incuria e, per via di questa contrapposizione, pretende all’assolutezza, richiede cioè abnegazione, obbedienza, sacrificio di sé, intransigenza ecc. Non appena questa espressione discorsiva dell’amore-valore si sia tradotta in forza, sia diventata, ad esempio, la serie degli atti di cura amorevole il cui compimento richiede energia e determinazione, ma anche flessibilità e prudenza, accade che il linguaggio dell’assolutezza cominci a suonare vuoto e retorico, se non minaccioso. In questa sfera, cioè, esso diventa il linguaggio del predicatore o di colui che potremmo chiamare il ‘professionista dei valori’. Un linguaggio, questo, che non di rado suona vuoto persino a chi ‘sta dalla stessa parte’, sente cioè di condividere le convinzioni propagandate, ma sospetta l’ipocrisia delle ‘belle parole’. Il linguaggio, insomma, della propaganda che, benché sembri uguale a quello assiologico, è in realtà null’altro che uno strumento, alle volte piuttosto subdolo, della forza. Se veramente, dunque, ci sta a cuore l’assolutezza dei valori, e non quella della forza, non c’è altro modo che salvaguardare laicamente lo spazio assiologico. Una volta, infatti, che questa sia stato limitato o annientato, all’espressione discorsiva dei valori rimarrà soltanto un’alternativa: o quella, nobile ma necessariamente relativizzante, del loro studio teorico e storico, oppure quella, ignobile eppure sempre più in voga quando si sollevano i problemi etici, dell’uso strumentale del discorso a fini propagandistici.
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