Daniela Tafani, Il palladio dei diritti del popolo. La libertà di stampa come contropotere in Kant e negli scritti rivoluzionari
1. Alla luce del giorno: pubblicità e trasparenza
2. Un diritto a guardia degli altri: la libertà di espressione e di stampa
3. Un diritto contro lo Stato: la libertà di espressione e di stampa come contropotere
4. Kant e la libertà di pensiero
5. Kant e l’unico palladio dei diritti del popolo
6. Conclusione
Vivere nella verità in un sistema dispotico è il supremo atto di sfida.
Chris Hedges, Julian Assange and the Collapse of the Rule of Law
Quando, nel 1793, Kant, qualifica la «libertà della penna» come «l’unico palladio dei diritti del popolo», utilizza un’espressione ampiamente nota, che circolava ormai da quasi un secolo: il termine «palladio» era infatti stato utilizzato – al pari di termini dal significato analogo, quali «baluardo», «guardiana» o «sentinella» – a qualificare la libertà di espressione e di stampa, in anni, paesi e contesti diversi, entro costellazioni concettuali che avevano fornito l’arsenale teorico agli indipendentisti americani e ai rivoluzionari francesi e nelle quali il repubblicanesimo inglese si intrecciava con la teoria lockiana dei diritti naturali e con il pensiero di Montesquieu e Rousseau.
L’articolo ricostruisce alcuni tratti dei percorsi che, in Inghilterra, nelle colonie d’oltreoceano e in Francia, caratterizzarono la circolazione e la reinterpretazione delle teorie politiche che identificavano la libertà di espressione e di stampa con un diritto sui generis, posto a guardia di tutti gli altri e in grado di proteggerli dagli abusi del potere costituito.
Si trattava di un diritto che i cittadini detenevano entro, ma anche contro lo Stato e dunque, al tempo stesso, di un diritto fragile e potentissimo, malvisto dai governi per il suo intrinseco legame con il diritto di resistenza e, dunque, per la sua natura potenzialmente eversiva.
Fin dal 1698, nelle rivendicazioni di Matthew Tindal, convivevano perciò, tra gli argomenti a favore della libertà di stampa, la tesi della natura essenzialmente dialogica della conoscenza (e la conseguente identificazione dell’attività razionale con un processo pubblico) e l’insinuazione che ad avversarla fossero i governi dediti ad attività che temevano la luce del sole.
Il motto della Francia rivoluzionaria per cui «la pubblicità è la salvaguardia del popolo» concentrava in sé anche questi due aspetti: con «pubblicità» si potevano infatti intendere ad un tempo la trasparenza dell’azione politica e di governo, in opposizione all’opacità e alla segretezza dei regimi dispotici, e la libertà di espressione e di stampa, in opposizione alla censura preventiva e talora anche alla sanzionabilità successiva degli autori.
Quanto alla posizione di Kant, è opportuna una lettura dei testi kantiani che tenga conto, di volta in volta, della situazione politica contingente, del significato che, entro questa, avrebbero assunto le diverse prese di posizione possibili e delle conseguenze professionali e giudiziarie che – in virtù delle norme vigenti in materia di censura – ciascuna di queste prese di posizione avrebbe comportato per il suo sostenitore.
Anche per Kant, infatti, la questione della libertà di pensiero coincideva con la questione filosofica della natura stessa della conoscenza umana e, al tempo stesso, con la rivendicazione politica di un potere del popolo, permanentemente contrapposto a quello dello Stato e in grado di sorvegliarlo, giudicarlo e, in ultima istanza, sovvertirlo.
1. Alla luce del giorno: pubblicità e trasparenza
Nel dicembre 1789, il Dipartimento di polizia della città di Parigi – considerato che veniva pubblicata «ogni giorno una miriade di scritti incendiari e calunniosi, che tendono solo a compromettere il riposo e l’onore dei cittadini» – fissava a 300 il numero massimo dei colporteurs1, i venditori ambulanti di giornali; imponeva loro di non strillare (e comunque mai di notte) se non gli atti dell’autorità costituita, «che il popolo ha interesse a conoscere e ai quali è suo dovere obbedire», e vietava loro di distribuire scritti che non recassero il nome dell’autore o almeno dello stampatore (a chi non fosse stato in grado di leggere e scrivere era esplicitamente vietata la vendita di giornali). Ciascun venditore di giornali doveva essere autorizzato dal proprio distretto e portare con sé, ben visibile sui propri abiti, una medaglia sulla quale si leggeva da un lato «La legge e il re» e dall’altro «La pubblicità è la salvaguardia del popolo. Bailly»2.
L’astronomo Jean Sylvain Bailly – che era diventato sindaco di Parigi, il primo nella storia della città, il 15 luglio di quello stesso anno e che sarebbe stato ghigliottinato il 12 novembre 1793 – era, in effetti, l’autore della frase «La pubblicità è la salvaguardia del popolo», che acquistò subito la notorietà e la diffusione di un motto popolare o di un proverbio. Come ricorda Edwy Plenel, che ne ha pazientemente ricostruito l’origine3, la si trovava sia nei giornali, come citazione in exergo, sia su chi li distribuiva: nella medaglia di bronzo dei colporteurs, essa circondava l’immagine di un occhio spalancato, simbolo della vigilanza democratica, da cui partivano raggi di luce. Bailly l’aveva pronunciata per la prima volta il 13 agosto 1789, al Comitato provvisorio per le sussistenze, nel corso dell’approvazione di un provvedimento che, nel pieno della carestia e dei conseguenti disordini sociali, disponeva che la Guardia nazionale proteggesse i convogli di grano e farina (lo stesso Bailly fu costretto, pochi giorni dopo, a mettere delle sentinelle alla porta delle panetterie)4 e imponeva, al fine di contenere il prezzo del pane, la trasparenza nelle transazioni di grano e farina:
E, poiché la pubblicità è la salvaguardia del Popolo, e il giusto prezzo, sia per l’agricoltore che per il consumatore, di un bene di prima necessità, può essere ragionevolmente fissato solo nei mercati stabiliti per questo scopo sotto la supervisione delle amministrazioni comunali, il Comitato proibisce ai panettieri di fare i loro acquisti altrove che nei mercati pubblici.5
Nei discorsi rivoluzionari, il concetto di pubblicità era utilizzato con almeno due significati, entrambi strettamente correlati all’idea della sovranità assoluta del popolo (secondo un’immagine del potere, concepito come indiviso, che restava quella della monarchia assoluta, malgrado tale potere fosse ora attribuito alla volontà generale6): con «pubblicità» si potevano infatti intendere ad un tempo la trasparenza dell’azione politica e di governo, in opposizione all’opacità e alla segretezza dei regimi dispotici, e la libertà di espressione e di stampa, in opposizione alla censura preventiva e talora anche alla sanzionabilità successiva degli autori7.
Nel contesto della prima formulazione, da parte di Bailly, il concetto di pubblicità è utilizzato come sinonimo di trasparenza: il governo democratico francese agisce alla luce del giorno e sotto gli occhi del popolo, di contro all’opacità e alla segretezza delle azioni dei tiranni8, i quali – secondo la frequente metafora della lotta tra la luce e le tenebre9 – tramano nell’ombra e cospirano nelle tenebre10. La trasparenza è una caratteristica essenziale della giustizia – «la pubblicità è l’anima della giustizia», nella formula utilizzata da Jeremy Bentham nel 1790 con riferimento all’ambito giudiziario11 – e il vincolo della pubblicità tutela perciò la società dalle tendenze speculative delle transazioni finanziarie private e dagli abusi del potere. Di qui l’esigenza, fin dal 1789, di garantire il carattere pubblico, di diritto e di fatto, delle sedute dei corpi legislativi: nell’ottobre del 1789, di fronte all’ipotesi del trasferimento della sede dell’Assemblea nazionale in uno spazio ristretto, Marat chiese che si scegliesse una sala in grado di contenere «almeno duemila spettatori, in tribune aperte a tutti, senza distinzione»12. Il requisito della pubblicità si applica nel medesimo senso anche alla virtù individuale: «l’uomo onesto, colui che si comporta secondo i principi dell’onore e della probità, non ha mai paura della luce del giorno»13.
In un senso analogo, poco più di un decennio prima, anche Kant aveva assimilato le azioni moralmente buone, e le massime di queste, a quelle in grado di superare, in ipotesi, il test della loro stessa pubblicità: aveva infatti chiosato uno dei manuali di etica di Baumgarten14, ch’egli utilizzava come base per le sue lezioni, scrivendo: «Le azioni (o i principi di queste) che, se fossero generalmente conosciute, mi farebbero disprezzare o non amare o non tollerare, sono illegali»; «Vivi in modo tale da poter far conoscere pubblicamente la tua azione e non nascondere la massima della tua [azione] esterna» e, in una estrema e inequivocabile sintesi, «publice age»15. Ogni uomo che agisca immoralmente – aveva sostenuto Kant nelle lezioni di quegli stessi anni – sa bene di dover tenere nascoste le proprie massime e sa, al tempo stesso, che la legge morale è invece qualcosa che egli può professare pubblicamente16.
Considerato che il diritto trae per Kant il proprio contenuto prescrittivo dalla morale, va da sé, anche se Kant lo avrebbe sostenuto in uno scritto a stampa solo nel 1795, che il requisito della pubblicità sia per Kant costitutivo anche del diritto17 («tutte le azioni riguardanti il diritto di altri uomini, la cui massima non si accordi con la pubblicità, sono ingiuste»), che la giustizia possa essere pensata solo come «pubblicamente manifestabile» – di contro alla «perfidia di una politica che fugge la luce» – e che ogni pretesa giuridica debba possedere dunque «questa attitudine alla pubblicità»18.
2. Un diritto a guardia degli altri: la libertà di espressione e di stampa
La pubblicità nel suo secondo significato, intesa come la libertà di stampa, o talora, in un senso più ampio, come la libertà di pensiero e di espressione che di questa costituisce il fondamento, era ritenuta dai suoi difensori, nel XVIII secolo, non un mero diritto tra gli altri, bensì un diritto in grado di proteggere tutti gli altri diritti.
Di qui, l’uso del termine «salvaguardia» nella frase di Bailly e l’uso di termini dal significato analogo, quali «palladio»19, «baluardo», «guardiana» o «sentinella», a qualificare la libertà di espressione e di stampa, in anni, paesi e contesti diversi, entro costellazioni concettuali che forniranno l’arsenale teorico agli indipendentisti americani e ai rivoluzionari francesi e nelle quali il repubblicanesimo inglese si intreccia con la teoria lockiana dei diritti naturali e con il pensiero di Montesquieu e Rousseau20. Alla circolazione e alla reinterpretazione delle idee e delle teorie politiche, malgrado le distanze geografiche21, contribuirono le corrispondenze e le relazioni personali, una nuova diffusione dei periodici – che presentavano e discutevano estratti, resoconti e frammenti dei lavori stranieri – e l’ondata di traduzioni francesi dei testi del repubblicanesimo inglese, oltre che dei testi classici: traduzioni nelle quali dipendevano dall’agenda politica del traduttore non solo la scelta, sempre strategica, del testo da tradurre, ma altresì l’appropriazione e reinterpretazione creative, con liberi adattamenti funzionali al contesto della ricezione e al messaggio da trasmettere22. Esemplare, in questo senso, fu la traduzione francese, da parte di Mirabeau, dell’Areopagitica di John Milton, in un compendio intitolato Sur la liberte de la presse, Imité de l’Anglois, de Milton23 – pubblicato apparentemente «a Londres» ma in realtà a Parigi, nel 1788, alla vigilia della convocazione degli Stati Generali – nel quale Mirabeau adattava il testo di Milton al contesto francese, mantenendone l’audacia politica, sfumando gli specifici riferimenti alla situazione politica inglese, secolarizzando gli argomenti di teodicea e espungendo i riferimenti biblici, poco graditi al pubblico parigino24.
Il linguaggio politico e le idee ricorrenti nel repubblicanesimo classico25– quali l’opposizione tra libertà e dispotismo e la necessità di una vigilanza permanente, il ruolo della virtù civile e quello della partecipazione popolare – e i temi del repubblicanesimo costituzionale26 – quali la funzione, nella tutela dei diritti pre- politici, del governo delle leggi, della forza delle istituzioni e della distribuzione dei poteri – erano congiunti e combinati in «strutture globali»27 nuove, nelle quali comparivano ricorsivamente non solo gli stessi concetti, ma talora le medesime strutture argomentative, pur entro contesti storici, politici e culturali diversi.
Negli Stati Uniti, alla tutela della libertà di parola e di stampa, sancita nel 1791 dal primo emendamento della Costituzione, contribuirono, oltre all’esigenza politica di limitare i poteri del governo federale, fattori storici, filosofici e culturali, quali il privilegio parlamentare inglese della libertà di dibattito, la teoria lockiana dei diritti naturali, l’abolizione della censura preventiva, la crescita della tolleranza religiosa e la straordinaria diffusione, nelle colonie, delle Lettere di Catone28.
Nella quindicesima delle Lettere di Catone, intitolata Sulla libertà di parola: essa è inseparabile dalla libertà pubblica – che fu pubblicata il 4 febbraio 1721 sul «London Journal» e che Benjamin Franklin29 citava già nel 1722, a soli 16 anni30 – la libertà di parola era assimilata al «baluardo» della libertà:
La libertà di parola è il grande baluardo della libertà; esse prosperano e muoiono insieme: Ed è il terrore dei traditori e degli oppressori, e una barriera contro di loro.31
Grande popolarità nelle colonie avevano anche le battaglie per la libertà di stampa condotte – tra debiti, duelli, incarcerazioni e orge in abiti ecclesiastici – dallo spericolato John Wilkes32, di cui gli americani celebravano ogni vittoria politica contro il governo e che, il 5 giugno 1762, nell’incipit del primo articolo del suo settimanale, «The North Briton», presentava la libertà della stampa come il «baluardo» delle altre libertà:
La libertà della stampa è il diritto di nascita di ogni BRITANNICO, ed è giustamente considerata il solido baluardo delle libertà di questo paese. è stata il terrore di tutti i cattivi ministri; perché i loro oscuri e pericolosi disegni o la loro debolezza, incapacità e doppiezza sono stati così scoperti e mostrati al pubblico, generalmente con colori troppo forti e giusti perché essi potessero resistere a lungo all’odio dell’umanità.33
Nel 1776, il termine «baluardo» era ripreso nella Dichiarazione dei diritti della Virginia:
la libertà della stampa è uno dei grandi baluardi della libertà, e non può mai essere limitata se non dai governi dispotici.34
Quanto al termine «palladio», il polemista inglese più celebre del periodo, Junius – che le spie sguinzagliate da re Giorgio III non riuscirono mai a identificare e che scambiava messaggi con Wilkes tramite oscuri annunci pubblicitari nei giornali35 – raccomandava ai suoi lettori, nella Dedica alla nazione inglese, premessa all’edizione delle sue lettere pubblicata nel 1772, di ricordare sempre, e di insegnare ai figli, «che la libertà di stampa è il palladio di tutti i diritti civili, politici e religiosi di un inglese»36. In difesa di Wilkes – che, pur eletto, era stato espulso e dichiarato ineleggibile dalla Camera dei Comuni37 – Junius aveva scritto, il 19 dicembre 1769, la sua lettera più celebre, sfrontatamente indirizzata al re, al quale chiedeva di mettere da parte il proprio «risentimento personale» contro Wilkes (che il re, in effetti, avrebbe chiamato «quel diavolo di Wilkes»38) e che invitava ad intervenire, giacché il potere della Camera dei Comuni derivava dal popolo e questa non poteva privarlo della facoltà di scegliere i propri rappresentanti. Del resto, ricordava Junius al re, la stessa corona, così come era stata acquisita con una rivoluzione, avrebbe potuto essere persa con un’altra39.
In Francia, Jean-Paul Marat, che aveva vissuto in Inghilterra dal 1765 al 1776, fece propria l’assimilazione di Junius della libertà di stampa a un «palladio»40, ossia a uno strumento di difesa contro i governi dispotici. Il 19 gennaio 1790, già raggiunto da tre mandati di arresto per lèse-nation41, a causa dei suoi scritti incendiari, Marat invocava, in difesa della sua attività, proprio le lettere di Junius:
Non sapete che in Inghilterra uno scrittore, parlando per il paese, può trascinare nel fango qualsiasi uomo pubblico, per quanto alto sia il suo rango? Aprite le lettere di Junius, e vedrete l’autore perseguire senza sosta il primo ministro, svelando i suoi piani, denunciando la sua amministrazione, dando spettacolo di lui ogni giorno, strappandolo al suo riposo, costringendolo a calmare la sua furia con l’oppio, e facendolo scendere dal suo trono per andare in solitudine a seppellire la sua vergogna e disperazione.42
Tra il 1789 e il 1790, Marat rivolse pubblicamente al ministro delle finanze Necker – in uno scritto eloquentemente intitolato Denuncia al tribunale del pubblico 43 – l’accusa, tra le altre, di aver consentito, a scopo speculativo, l’accaparramento delle farine che riduceva il popolo alla fame44. Rientrato a Parigi nel maggio 1790 – dopo un auto-esilio di tre mesi a Londra, per sfuggire all’arresto – Marat avviò la pubblicazione di un nuovo giornale, inizialmente anonimo, al quale dette il nome programmatico Le Junius français. Nel 1789, del resto, col medesimo scopo di rendere espliciti i propri modelli inglesi, aveva chiamato Le Moniteur patriote (The Monitor era il nome del primo giornale di Wilkes) il suo primo giornale, di cui era uscito un solo numero, anonimo45.
Alla libertà della stampa inglese guardava anche Camille Desmoulins: nel 1789 definiva la libertà di stampa, insieme alla dichiarazione dei diritti, «palladio» della repubblica46; e ad essa, come al «palladio» della libertà, restò fedele negli anni seguenti, anche contro coloro che l’avevano dapprima difesa insieme a lui, come dichiarò, nel 1793, nel votare contro la messa in stato di accusa di Marat:
Dato che io professo, sulla libertà di stampa, lo stesso principio, degli uomini che oggi chiedono il decreto di accusa contro Marat; parlo di Brissot e Lanthenas, e che sostenevano, tre anni fa, che la più illimitata, la più indefinita libertà della stampa, fosse il palladio della libertà; dato che J.-J. Rousseau ha detto, da qualche parte, che il signor luogotenente di polizia avrebbe fatto impiccare il buon Dio per il sermone della montagna; non voglio disonorarmi, votando il decreto di accusa contro uno scrittore troppo spesso profeta, al quale la posterità darà delle statue.47
Nel 1794, Desmoulins dedicò alla libertà di stampa il numero 7 del «Vieux Cordelier», che recava in epigrafe il profetico motto «Vivere libero o morire»48 e che fu pubblicato postumo dopo il suo ghigliottinamento. Desmoulins ricordava la frase di Bailly, citava passi di Tacito dalla versione francese della traduzione inglese che ne aveva fatto Thomas Gordon49, richiamava la libertà della stampa inglese e individuava nella «libertà di parlare e di scrivere»50 la caratteristica distintiva della repubblica, rispetto alla monarchia, e la facoltà in grado, da se stessa, di dar luogo al passaggio dalla seconda alla prima:
Che cosa distingue la repubblica dalla monarchia? Una sola cosa; la libertà di parlare e di scrivere. Date la libertà di stampa a Mosca, e domani Mosca sarà una repubblica. è così che […] la sola libertà della stampa ci ha condotti, come per mano, fino al 10 agosto, e ha rovesciato una monarchia di quindici secoli, quasi senza spargimento di sangue. Qual è il miglior baluardo dei popoli liberi contro le invasioni del dispotismo? è la libertà della stampa. E poi il migliore? è la libertà della stampa. E dopo il migliore? è ancora la libertà della stampa.51
Desmoulins citava la massima «di uno scrittore inglese»52 che il giornalista élysée Loustalot aveva sempre ripetuto e che egli stesso aveva ricordato già nel 1790, nella sua orazione funebre per l’amico:
Non smetteva di ripetere la massima di uno scrittore inglese: Se la libertà di stampa potesse esistere in un paese dove il dispotismo più assoluto riunisce tutti i poteri in una sola mano, basterebbe da sola a fare da contrappeso.53
Il riferimento alla «massima di uno scrittore inglese» non meglio precisato è emblematico del complesso intreccio di influenze: a parere di chi scrive54, il riferimento era a Junius, il quale aveva riportato tale massima, in chiusura della Prefazione lla raccolta delle sue lettere55; ma Junius citava con ciò, a sua volta, «uno scrittore straniero, «Monsieur De Lolme», ossia l’autore ginevrino, rifugiatosi in Inghilterra, di quel saggio sulla costituzione inglese che Junius raccomandava come opera «profonda, solida e ingegnosa» e che avrebbe esercitato una profonda influenza sulle discussioni politiche che precedettero e accompagnarono le rivoluzioni americana e francese56:
se fosse possibile che la libertà di stampa esistesse in un governo dispotico, e (cosa non meno difficile) che esistesse senza cambiare la costituzione, questa libertà di stampa formerebbe da sola un contrappeso al potere del principe.57
La parentesi dava conto, incidentalmente, della natura eversiva del potere rappresentato dalla libertà della stampa58: in un paese retto da un governo dispotico, la sola esistenza della libertà della stampa avrebbe provocato, pressoché infallibilmente, un mutamento della forma di governo. Nel termine «contrappeso», era dunque il prefisso «contro» ad indicare l’elemento politico decisivo.
3. Un diritto contro lo Stato: la libertà di espressione e di stampa come contropotere
La libertà di espressione e la libertà di stampa possono proteggere i diritti del popolo perché si configurano, rispetto ai poteri dello Stato, come un contropotere: «un contrappeso», nelle parole di De Lolme, o, con l’espressione di un anonimo, «un controveleno»59. Si trovano a questo proposito variamente congiunti, nei testi degli ultimi decenni del XVIII secolo dedicati alla libertà di espressione e di stampa, il tema del bilanciamento dei poteri, proprio del repubblicanesimo costituzionale, il tema classico di una permanente sfiducia nel potere, sempre incline al dispotismo, e i riferimenti a due specifiche istituzioni della Roma repubblicana, il tribunato della plebe – che Cicerone aveva qualificato come «guardiano e difensore della libertà»60 – e il potere censorio61, che De Lolme ricordava, rimandando alle pagine ad esso dedicate da Montesquieu e Rousseau, e che egli riteneva dovesse essere affidato al popolo intero. La libertà della stampa era infatti esplicitamente ricondotta da De Lolme, insieme al diritto di eleggere i membri del Parlamento, a uno dei «poteri che il popolo stesso esercita»62.
La libertà di espressione e la libertà di stampa costituiscono dunque un contropotere in quanto si tratta di diritti detenuti direttamente dal popolo contro, oltre che sotto i poteri dello Stato; si manifesta con ciò il loro nesso con il diritto di resistenza63, come rilevò Thomas Erskine il 18 dicembre 1792, nel corso del suo intervento, della durata di tre ore e quaranta minuti, in difesa di Thomas Paine, nel processo in contumacia per la pubblicazione della seconda parte dei Diritti dell’uomo:
nessun argomento giuridico può scuotere la libertà di stampa nel mio senso, se sono sostenuto nelle mie dottrine riguardanti il grande diritto inalienabile dei popoli, di riformare o cambiare i loro governi. è perché la libertà di stampa si risolve in questa grande questione, che è stata, in ogni paese, l’ultima libertà che i sudditi sono stati in grado di strappare al potere. Altre libertà sono detenute sotto i governi, ma la libertà di opinione mantiene i GOVERNI STESSI nella dovuta sottomissione ai loro doveri64.
Il contropotere – donde le successive espressioni di «quarto stato»65 o «quarto potere» – rappresentato dalla libertà di espressione e di stampa era costantemente assimilato a un potere giudiziario, ossia al tribunale del popolo o dell’opinione pubblica, in grado di vigilare sulla corrispondenza tra la volontà generale, sovrana, e l’operato dei poteri costituiti. La figura dell’opinione pubblica rinviava a una sfera pubblica, ossia a un pubblico di privati, dai complessi presupposti sociali66, e costituiva, al tempo stesso – come ha mostrato Keith Michael Baker – un’invenzione, ossia una categoria astratta, una figura retorica utilizzata per un gesto politico sovversivo del precedente principio di autorità, entro un processo di trasferimento dell’autorità «dalla persona pubblica del sovrano alla persona sovrana del pubblico»67.
Una lucida definizione del tribunale dell’opinione pubblica, quale forma di esercizio diretto della sovranità del popolo, che si serve della libertà di stampa come di uno strumento, fu formulata da Gaetano Filangieri68, nel 1785, nel quarto volume de La scienza della legislazione (i primi due volumi erano stati messi all’Indice l’anno precedente69), nel Capo LII, dedicato alla libertà della stampa, ossia – con una formula che ne esprime la consueta assimilazione a un diritto in grado di salvaguardare tutti gli altri – a «uno de’ dritti più efficaci alla conservazione degli altri dritti». Il diritto alla libertà della stampa è fondato – sosteneva Filangieri – sul dovere di comunicare agli altri le proprie idee, per contribuire così al miglioramento della società:
Vi è un tribunale, ch’esiste in ciascheduna nazione; ch’è invisibile, perché non ha alcuno de’ segni, che potrebbero manifestarlo, ma che agisce di continuo, e che è più forte de’ magistrati, e delle leggi, de’ ministri, e de’ Re; che può esser pervertito dalle cattive leggi; diretto, corretto, reso giusto, e virtuoso dalle buone; ma che non può né dalle une, né dalle altre esser contrastato, e dominato. Questo tribunale, che col fatto ci dimostra, che la sovranità è costantemente, e realmente nel popolo; e che non lascia in certo modo di esercitarla, malgrado qualunque deposito, che ne abbia fatto tra le mani di molti, o d’un solo, d’un Senato, o d’un Re; questo tribunale, io dico, è quello dell’opinione pubblica.
[…] Ma questo tribunale non ha né foro, né tribuna, non vi son comizi, non vi è concione per lui […] In qual modo verrà dunque avvertito de’ disegni di un ministro iniquo o dell’abuso di autorità di un magistrato? […] La libertà della stampa è questo mezzo: il legislatore non deve dunque trascurarla; il legislatore deve stabilirla; il legislatore deve proteggerla. L’interesse pubblico lo richiede; […] e quel che è più, la giustizia […] ne vieta manifestamente la privazione. La pruova n’è semplicissìma. Vi è un dritto, comune ad ogni individuo di ogni società; vi è un dritto, che non si può né perdere, né rinunciare, né trasferire, perchè dipende da un dovere […] Quello dovere è quello, di contribuire, per quanto ciascheduno può, al bene della società, alla quale appartiene, ed il dritto, che ne dipende, è quello di manifestare alla società istessa le proprie idee, che crede conducenti, o a diminuire i suoi mali, o a moltiplicare i suoi beni. […]. La libertà, dunque, della stampa è di sua natura fondata sopra un dritto che non si può né perdere né alienare finché si appartiene ad una società. 70
L’idea, presentata da Filangieri, che la libera comunicazione con i propri simili costituisca un diritto naturale, fondato sul corrispettivo dovere, era stata espressa, nel 1709, da Matthew Tindal, in Un discorso per la libertà della stampa: la ragione, che contraddistingue l’uomo da un bruto, è l’«unica luce» che Dio gli abbia dato – sosteneva Tindal – per distinguere il vero dal falso. Ma, da solo, ciascuno scoprirebbe ben poco, quanto alle verità religiose o a qualsiasi altra verità; donde, per gli uomini, il «mutuo dovere» – che Tindal fondava, con prudente opportunismo, sul dovere biblico di esortarsi e correggersi a vicenda – «di informarsi reciprocamente sulle proposizioni che ritengono vere e sugli argomenti con cui cercano di dimostrarle»71, cosa che non può essere fatta meglio che con la stampa. La libertà della stampa è dunque la «fedele guardiana» di «tutte le altre libertà, sia civili che religiose»72 e – secondo la formula che sarà costantemente ripetuta e variamente declinata nel corso di tutto il secolo – la libertà in grado di dar luogo, da se stessa, a tutte le altre, e senza la quale tutte, inevitabilmente, cadono:
Assicura la sola libertà della stampa, e questa, con ogni probabilità, assicurerà tutte le altre libertà; ma non appena questa cada nelle mani di uomini malintenzionati, niente di ciò che abbiamo di più caro o prezioso è al sicuro. E l’esperienza dimostra che dovunque sia negata quella della stampa, nessun’altra è preservata.73
L’11 maggio 1791, nel suo Discorso sulla libertà della stampa, Robespierre esordiva con il medesimo argomento utilizzato da Tindal («dopo la facoltà di pensare, quella di comunicare i propri pensieri ai propri simili è l’attributo più evidente per distinguere l’uomo dal bruto»74) e, come Tindal, assimilava la stampa libera a una «guardiana» della libertà75. Al pari dei suoi contemporanei, Robespierre sottolineava il carattere politicamente non neutrale della libertà di stampa, quale strumento antidispotico. In quanto potere del popolo, in virtù del quale «ogni cittadino è una sentinella della libertà che deve dare l’allarme al minimo rumore»76, la libertà della stampa non deve essere limitata, né perseguibile – pena, secondo Robespierre, il suo completo annientamento – da parte di quel potere, tanto più forte e così riottoso a ogni controllo, che contraddistingue lo Stato:
qual è il principale vantaggio, lo scopo essenziale della libertà della stampa? è di frenare l’ambizione e il dispotismo di coloro cui il popolo ha delegato la sua autorità richiamando puntualmente la sua attenzione sugli attentati che essi possono commettere contro i suoi diritti. Ora se voi lasciate loro il potere di perseguire con il pretesto della calunnia quanti osano biasimare la loro condotta, non è chiaro che questo freno diviene assolutamente impotente e nullo? Chi non vede quanto è ineguale la lotta tra un cittadino debole, isolato e un avversario armato delle immense risorse fornite da un grande credito e una grande autorità?77
La libertà di espressione e di stampa è perciò, costitutivamente, libertà di denuncia: degli abusi del potere, anzitutto, ma anche – per le fragili istituzioni della Francia rivoluzionaria – di qualsiasi azione, pubblica o privata, che metta in pericolo le libertà e i diritti appena conquistati. è così che «palladio» e «guardiana» delle libertà saranno denominate altresì la denuncia (la denuncia «è un’arma puramente difensiva, o piuttosto è il Palladio della nostra libertà nascente»78) e la sfiducia («la sfiducia, checché possiate dirne, è la guardiana dei diritti del popolo»79), in un nuovo e complesso intreccio, nel quale l’esigenza della pubblicità e della trasparenza assolute legittima, con un apparente paradosso, la segretezza della sorveglianza80.
4. Kant e la libertà di pensiero
Nel 1698, Matthew Tindal si era opposto alle restrizioni della libertà della stampa presentando quale ragione, tra le altre, il fatto che tali restrizioni fornivano ai sostenitori della sola religione naturale un argomento contro il cristianesimo: il rifiuto di sottoporre la propria religione a un giusto processo rivelava infatti che lo stesso clero era consapevole della falsità della religione cristiana; di una religione che rifiuti di esser messa alla prova, chiosava Tindal nell’edizione del 1709, «si dovrebbe sospettare»81.
Nel 1741, Johann Lorenz Schmidt pubblicò una traduzione tedesca del più celebre scritto di Tindal, con una Prefazione di 130 pagine, nella quale riprendeva puntualmente le tesi di Tindal sulla libertà della stampa, inclusa l’affermazione per cui il divieto di giudicare da sé cosa appartenga alla religione e cosa alla superstizione e di comunicare agli altri i propri giudizi fa sorgere dubbi sulla rivelazione e fa sì che questa, un pezzo dopo l’altro, divenga sospetta82.
Nella Critica della ragion pura, Kant utilizzava il medesimo argomento, oltre che la medesima metafora giudiziaria83, e lo applicava, come già Tindal, anche all’ambito civile84 (non solo la religione, ma anche la legislazione che pretenda di sottrarsi alla critica è per ciò stesso sospetta):
Quella in cui viviamo è la vera e propria epoca della critica, a cui tutto deve venir sottoposto. Con la sua santità, la religione, e, con la sua maestà, la legislazione, pretendono solitamente sottrarsi alla critica; ma in tal modo sollevano nei propri riguardi un fondato sospetto, compromettendo quella stima non simulata che la ragione può concedere solo a ciò che si sia rivelato in grado di resistere al suo libero e pubblico vaglio.85
La libertà «compatibile con la libertà di ciascuno e pertanto col bene comune», ossia il principio universale del diritto, include, secondo Kant, «anche il diritto di proporre alla pubblica critica i nostri pensieri e quei dubbi che da soli non riusciamo a risolvere, senza incorrere nell’accusa di essere cittadini sovversivi e pericolosi»86. L’attività razionale è dunque costitutivamente un processo pubblico e il divieto della critica coincide perciò con la distruzione della ragione stessa 87:
In ogni sua impresa la ragione ha l’obbligo di sottostare alla critica e non può opporre alcun divieto al libero esercizio di essa, senza recar danno a se stessa ed esporsi a un sospetto dannoso.88
Anche Tindal aveva fondato il diritto di comunicare agli altri i propri pensieri sul diritto stesso di pensare, ossia di utilizzare la ragione, data dagli uomini a Dio per distinguere il vero dal falso (tra non possedere la ragione e non esercitarla – osservava Tindal – c’è ben poca differenza). La negazione del diritto di comunicare i propri pensieri equivaleva dunque alla negazione del diritto di pensare:
Gli uomini hanno lo stesso diritto di comunicare i loro pensieri, che di pensare da se stessi; e dove l’uno sia negato, l’altro è raramente usato, o inutilmente.89
Tindal qualificava perciò il «giudicare da se stessi» come un dovere, tale da non ammettere vie di mezzo rispetto al lasciar giudicare altri al proprio posto.
Sui medesimi temi, Kant assunse posizioni analoghe, negli anni successivi al 1781, con toni e argomenti strettamente legati, di volta in volta, al contesto sociale, ai mutamenti della situazione politica e a singoli eventi, di carattere giuridico o, talora, giudiziario: anche per Kant, infatti, la questione della libertà di pensiero coincideva con la questione filosofica della natura stessa della conoscenza umana e, al tempo stesso, con la rivendicazione politica di un potere del popolo, permanentemente contrapposto a quello dello Stato e in grado di sorvegliarlo, giudicarlo e, in ultima istanza, sovvertirlo. Va da sé, dunque, che ogni affermazione su questi temi derivasse da una scelta individuale, assunta tenendo conto del contesto sociale, giuridico e politico contingenti, del significato che, entro questo, avrebbero assunto le diverse prese di posizione possibili e delle conseguenze civili, professionali e finanziarie che – in virtù delle norme vigenti in materia di censura – ciascuna di queste prese di posizione avrebbe comportato per il suo sostenitore.
Gli scritti politici kantiani sono invariabilmente scritti d’occasione, che rispondono a interlocutori contemporanei su questioni contingenti, e tuttavia, al tempo stesso, enunciano principi con una pretesa di validità universale: per comprendere appieno il secondo aspetto, è indispensabile tener conto dello specifico contesto e del modo in cui l’occasione determinata abbia influito sulla formulazione dei principi e sul grado di franchezza o reticenza ritenuto, di volta in volta, opportuno.
Esemplare, in questo senso, è il saggio del 1784: alla domanda Che cos’è l’illuminismo?90, Kant rispose con uno scritto in difesa della libertà di espressione e di stampa91.
In effetti, come aveva osservato Ernst Ferdinand Klein l’anno precedente, il modo in cui si rispondeva alla domanda su cosa fosse l’illuminismo influiva fortemente sull’estensione da attribuire alla libertà di stampa. Klein era intervenuto in un dibattito – interno alla Mittwochs-Gesellschaft e dunque non pubblico – che era stato avviato da Johann Carl Wilhelm Möhsen, con due quesiti, strettamente legati: che cosa si potesse fare per diffondere l’illuminismo tra i propri concittadini e se non fosse utile, piuttosto, per la massa comune degli uomini, essere illusa, conservando intatti i propri vecchi errori o essendo indotta in nuovi. La risposta di Klein era che non si dovesse privare il popolo degli utili errori che servivano «a una certa classe di uomini per dare loro un’alta concezione delle cose degne della loro grande stima», almeno finché non si fosse stati in grado di sostituire tali errori con verità in grado di fondare quella medesima stima. Si trattava dunque di una questione di controllo sociale: le credenze popolari, pur erronee, che consentivano di garantire il disciplinamento sociale e, con ciò, la sicurezza pubblica, non dovevano essere messe in discussione negli scritti destinati alle masse. è perciò che Klein ammetteva la vigilanza della censura per tali pubblicazioni, quali «calendari, catechismi, settimanali»:
Se [scrivendo] una morale per l’uomo comune […] dicessi che il soldato non è vincolato dal giuramento a fare qualcosa a cui non sia già vincolato come cittadino dello Stato o in virtù del contratto che ha stipulato, il censore dovrebbe proibire la stampa del libro anche se lui stesso fosse di questa opinione. è molto diverso quando presento questa frase in un trattato filosofico. Di tali scritti posso dare per scontato che non cadranno nelle mani dei soldati.92
La distinzione tra ciò che i predicatori dovevano insegnare ai fedeli e ciò che i dotti erano autorizzati a scrivere nei loro trattati era corrente, nella Prussia di quegli anni, e si fondava su una sfera pubblica ristretta, nella quale l’élite dei funzionari statali contribuiva a garantire che dottrine potenzialmente foriere di disordini sociali fossero oggetto del solo dibattito tra i dotti93.
Di tale distinzione si servì anche il ministro Karl Abraham von Zedlitz, nel decreto del Dipartimento ecclesiastico del 12 dicembre del 1783, che assolse il pastore Johann Heinrich Schulz dall’accusa di determinismo fatalistico, rivoltagli dal concistoro superiore. Zedlitz riteneva sufficiente che Schulz – come già Johann August Starck, assolto da Zedlitz in occasione di un processo religioso analogo, nel 1775 – rispettasse la distinzione tra la sua attività di predicatore, esercitata in quanto funzionario, tenuto a educare i membri della propria congregazione al «comune uso cristiano», e la sua attività di scrittore94, responsabile delle sue tesi filosofiche e teologiche di fronte al pubblico:
Verso il pubblico a cui è destinato il libro, l’autore può difendere le proposizioni filosofico-speculative in esso contenute, ma le persone che compongono la sua congregazione non sono chiamate, né hanno alcuna vocazione [Beruf], ad esaminarle e giudicarle.95
Kant utilizzò, nel 1784, un astuto espediente retorico: fondò infatti la libertà di espressione e di stampa sulla piena adozione della linea ministeriale, con la distinzione tra uso privato e uso pubblico della ragione, apparentemente equivalente alla distinzione di Zedlitz tra gli atti del funzionario e quelli dello scrittore, che si rivolge al pubblico. Al tempo stesso, tuttavia, Kant contestava l’assunto sul quale la posizione di Zedlitz si fondava (ossia che il pubblico equivalesse a una cerchia ristretta di dotti e che la massa delle persone comuni non fosse chiamata a far parte del pubblico) e presentava il rovesciamento di tale assunto come il motto stesso dell’illuminismo: alla tesi di Zedlitz che il popolo non avesse né la capacità, né la vocazione [Beruf] a esaminare e giudicare, Kant contrapponeva l’affermazione che ogni uomo ha invece proprio «la vocazione [Beruf]» – lo stesso termine impiegato da Zedlitz – «a pensare da sé» e che, quanto all’incapacità di servirsi del proprio intelletto, questa fosse reale, per chi avesse sempre vissuto con altri che pensavano al suo posto, e tuttavia momentanea e superabile, se non dal singolo isolato, certo da «un pubblico», purché gli se ne lasciasse la libertà96.
Con ciò, la distinzione di Zedlitz era svuotata di senso e trasformata nel suo contrario; restava infatti da intendersi nel senso tradizionale soltanto l’uso privato della ragione, assimilabile al dovere del funzionario: ad esempio, ed era per l’appunto il caso di Schulz, l’obbligo dell’ecclesiastico di «tenere la sua lezione ai suoi allievi di catechismo e alla sua comunità secondo la dottrina della chiesa che egli serve», giacché «egli è stato assunto» (donde la qualifica di uso privato della ragione) «a queste condizioni»97.
L’uso pubblico, invece, non era affatto da intendersi come rivolto a un uditorio dotto e ristretto, da parte di un membro di quella stessa élite, bensì come rivolto da ciascuno «al pubblico in senso proprio, vale a dire al mondo»98, a chiunque – precisava Kant nella consapevolezza della novità della propria tesi – sia un lettore:
Ma per uso pubblico della propria ragione io intendo quello che ciascuno fa di essa come studioso dinanzi all’intero pubblico dei lettori.99
Alla visione paternalistica e elitaria, che confinava la libertà di discussione entro la sfera ristretta di una apolitica comunicazione tra dotti100, Kant contrapponeva una concezione dell’illuminismo come processo di comunicazione101 e la tesi che «ognuno dei cittadini» sia libero di fare «osservazioni pubbliche, cioè tramite scritti, sui difetti dell’istituzione vigente», tanto riguardo alle «cose di religione» quanto riguardo alla legislazione statale, «addirittura criticando apertamente quella esistente»102.
Negare un tale diritto, o rinunciarvi, equivarrebbe a una violazione dei «sacri diritti dell’umanità» e costituirebbe dunque per Kant – con una tesi di chiara derivazione rousseauiana103 – un atto giuridicamente nullo. Con ciò, la posizione kantiana si mostrava allineata alle contemporanee tesi liberali sulla libertà di espressione e di stampa come diritto inalienabile.
Kant sottoscriveva altresì la tesi che la libertà di pensiero sia un diritto sui generis, eminentemente politico, in grado di tutelare e promuovere gli altri diritti e di influire sui mutamenti delle forme di governo:
[il] libero pensiero […] agisce a sua volta gradualmente sul modo di sentire del popolo (attraverso la qual cosa questo diventerà più e più capace della libertà di agire), e alla fine addirittura sui princípi del governo, il quale trova vantaggioso per sé trattare l’uomo, che ormai è più che una macchina, in conformità alla sua dignità.104
La conclusione di Kant è analoga alla tesi sostenuta da Jean Louis De Lolme e ripresa da Junius, Loustalot e Desmolins, quanto al potere della libertà della stampa di produrre mutamenti costituzionali, nei regimi dispotici, in virtù della sua mera esistenza105. Il saggio di De Lolme sulla costituzione inglese era stato tradotto in tedesco nel 1776106; nella recensione della traduzione comparsa l’anno seguente nelle «Ephemeriden der Menschheit oder Bibliothek der Sittenlehre, der Politik und der Gesetzgebung», si plaudeva alla tesi di De Lolme, ma con l’accortezza di presentarne una più innocua riformulazione, ossia la tesi che, nei regni dispotici, la libertà di stampa possa far sparire l’ingiustizia, anziché i governi stessi 107.
La difesa di una libertà in grado di agire «sui princípi del governo» esponeva Kant all’accusa di minare, con ciò, le fondamenta della sicurezza pubblica; e anche la tesi secondo cui la libertà di pensiero avrebbe reso i cittadini maggiormente capaci di agire e indotto il governo a ritenere «più vantaggioso per sé» il trattarli meglio avrebbe potuto suonare minacciosa. Kant si premuniva, perciò, con rassicurazioni formali («la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi», «la pace pubblica e la concordia della cosa comune non hanno nulla da temere dalla libertà», «non si corre pericolo a permettere ai sudditi di fare uso pubblico della loro ragione»108) e con un argomento – di cui egli stesso ammetteva il carattere paradossale – rivolto a Federico II: la libertà di intervenire nelle questioni pubbliche e di criticare apertamente le istituzioni vigenti può essere garantita con maggiore tranquillità in una monarchia che in una repubblica, se nella prima il sovrano è «illuminato egli stesso, non teme le ombre e dispone, al contempo, di un esercito numeroso e ben disciplinato a garanzia della pubblica pace»109.
Meno di due anni dopo, quando venne pubblicato nella «Berlinische Monatsschrift», nell’ottobre del 1786, il saggio kantiano Che cosa significhi orientarsi nel pensiero, il contesto politico era mutato: Federico II era morto il 17 agosto di quell’anno e, nel pieno della disputa sullo spinozismo, Kant aveva ritenuto necessario chiarire la propria posizione, presentandola come alternativa a quelle di Mendelssohn e Jacobi, e respingendo l’assimilazione del criticismo allo spinozismo110. Come gli aveva scritto il direttore della rivista, Iohann Erich Biester, fin dal mese di giugno, implorandolo di prendere pubblicamente le distanze dall’ateismo dogmatico, non era infatti possibile prevedere se l’imminente cambiamento (al trono) sarebbe stato o no favorevole alla libertà di pensiero111. Riguardo a quest’ultima, il tono del saggio kantiano è allarmato: il «fantasticare esaltato» (la Schwärmerei) di chi, come Jacobi, voglia affrancarsi dalle leggi della ragione, fa sì che l’autorità si faccia avanti, «per impedire che gli affari civili precipitino nel massimo disordine», e abolisca, sbrigativamente, la libertà del pensiero. Quanto alla tesi di taluni, per cui della libertà di pensare non si potrebbe venir privati, Kant osservava, come già Tindal e come era ormai comune tra i suoi contemporanei, che la comunicazione con gli altri è costitutiva del pensiero e che dunque «il potere esterno che toglie agli uomini la libertà di esprimere pubblicamente i loro pensieri toglie loro anche la libertà di pensare»112.
Proprio questa inutile libertà fu l’unica che l’editto di religione del 1788 concesse: la libertà di coscienza era infatti garantita solo purché ciascuno – recitava l’editto – «adempia i suoi doveri tranquillamente come un buon cittadino, si tenga tuttavia per sé la sua opinione particolare, ed eviti accuratamente di diffonderla o di convincere di essa altri». Gli insegnanti e i predicatori che avessero avuto la sfrontatezza di diffondere, sotto «l’abusato nome: Illuminismo», gli errori, «già da tempo confutati, di Sociniani, deisti, naturalisti», rendendo sospetti i misteri della religione rivelata e derubando «milioni di nostri buoni sudditi della tranquillità della loro vita e della loro consolazione sul letto di morte», avrebbero perso automaticamente il loro impiego e sarebbero stati passibili di ulteriori sanzioni.113
La reazione di Kant al mutato contesto politico è caratterizzata, negli anni ’90, da un’obbedienza solo formale e da una sostanziale, crescente, sfrontatezza114: nel 1791, nello scritto Sul fallimento di tutti i tentativi filosofici in teodicea, Kant rivendicava il diritto dell’uomo, in quanto essere razionale, a «sottoporre ad esame, prima di accoglierla, ogni affermazione, ogni dottrina che si imponga al suo rispetto, acciocché questo rispetto sia sincero e non simulato» e portava dinanzi al tribunale della ragione direttamente Dio («occorre che il supposto avvocato di Dio dimostri […]»). Vietare un simile processo e, al tempo stesso, subordinare l’accesso ad alcuni uffici pubblici a una professione di fede – come accadeva in virtù dell’editto del 1788 – equivaleva, secondo Kant, a diffondere tra la popolazione l’abitudine alla simulazione e a «una certa falsità nel modo di pensare»115.
Si trattava di una tesi che era stata formulata da Spinoza, nei medesimi termini; poiché si può obbligare qualcuno a dire, ma non a pensare, ciò che gli sia imposto, con una simile coercizione non si otterrà che di indurre i cittadini a dire ciò che non pensano, istigandoli a un vile servilismo e corrompendone così i costumi:
supponiamo […] che gli uomini si possano dominare al punto che non osino di proferir parola che non sia conforme alle prescrizioni della suprema potestà. Con ciò, però, questa non potrà mai far sì che essi non pensino se non ciò che essa vuole: onde seguirebbe necessariamente che gli uomini continuerebbero a pensare una cosa e a dirne un’altra, e per conseguenza si corromperebbe la fede […] e si favorirebbero l’abominevole adulazione e la perfidia, donde l’inganno e la corruzione di ogni buon costume.116
Per Kant, una purificazione di tale modo di pensare non poteva che essere rinviata al giorno in cui sarebbe stata «protetta dalla libertà di pensiero», ossia, probabilmente, «ad un futuro lontano»117.
5. Kant e l’unico palladio dei diritti del popolo
La libertà di pensiero fu costantemente rivendicata da Kant quale facoltà di esame e di critica da esercitarsi nei due ambiti, quello religioso e quello politico, nei quali essa era giuridicamente limitata118. Nel 1793, egli si occupò del primo ambito nel saggio La religione nei limiti della sola ragione e, in parallelo, dedicò al secondo, ossia al diritto a sottoporre a un pubblico esame l’attività dello Stato, il Corollario della seconda sezione dello scritto Sul detto comune: «questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica». Gli editti di religione e di censura erano ancora vigenti e tuttavia la rivoluzione francese dava ai giacobini tedeschi119 – tra i quali era notoriamente da annoverarsi anche Kant120 – un coraggio nuovo.
Ne La religione, i temi della libertà di pensiero e della censura erano affrontati fin dall’Introduzione, con toni a tratti beffardi: se il censore si discosta dalla regola di anteporre la salvezza delle scienze alla salvezza delle anime, si finirà – osservava Kant – come nel caso di Galileo.121 E liquidava come «semplicemente ridicola» la pretesa di aver rispettato la libertà di pensiero, da parte di un governo che ne vieti la «pubblica professione»122. Quanto al tema dell’incapacità di servirsi autonomamente del proprio intelletto, affrontato nel 1784, questo si ampliava ora – in virtù degli eventi francesi – dalla questione della maturità del singolo individuo a quella della maturità di un popolo per la libertà giuridica: l’affermazione che un uomo, un servo o un popolo non siano pronti per la libertà non è – sosteneva Kant – che una tesi di comodo, giacché non è possibile diventare maturi per la libertà «se prima non vi si sia stati posti» e non si sia avuto modo di maturare, attraverso i necessari tentativi, dapprima inevitabilmente rozzi123.
Nello scritto Sul detto comune, Kant qualificava la «libertà della penna»124 come «l’unico palladio dei diritti del popolo»:
Il suddito non ribelle deve poter assumere che il suo principe non voglia fargli ingiustizia. Quindi, poiché ogni essere umano ha tuttavia i suoi diritti incancellabili cui non può mai rinunciare neanche se lo volesse e su cui egli stesso è autorizzato a giudicare, ma l’ingiustizia che gli capita, secondo la sua opinione, avviene, dal punto di vista di quel presupposto, solo per errore o per disinformazione del potere supremo su certe conseguenze delle leggi; così deve spettare al cittadino dello stato, e in verità con favore del principe stesso, la facoltà di rendere pubblicamente nota la sua opinione su ciò che, nelle disposizioni di quest’ultimo, gli sembra una ingiustizia verso la cosa comune. Infatti assumere che il capo non possa mai sbagliare o essere disinformato su una cosa sarebbe immaginarselo dotato della grazia di ispirazioni celesti ed elevato al di sopra dell’umanità. Dunque la libertà della penna – nei limiti del rispetto e dell’amore per la costituzione in cui si vive, mantenuta tramite il modo di pensare liberale dei sudditi, che ispira quella stessa ancora di più (e qui anche le penne si limitano reciprocamente da sé, così da non perdere la loro libertà) – è l’unico palladio dei diritti del popolo. Infatti volergli negare anche questa libertà non è soltanto come volergli togliere ogni pretesa di diritto nei riguardi del comandante supremo (secondo Hobbes) ma anche sottrarre a quest’ultimo, la cui volontà dà comandi ai sudditi in quanto cittadini solo perché rappresenta la volontà generale del popolo, ogni conoscenza su quanto egli stesso cambierebbe se lo sapesse, e metterlo in contraddizione con se stesso. Ma infondere al capo la preoccupazione che nello stato si possano eccitare disordini per il pensare da sé e ad alta voce, significa suscitare in lui sfiducia nel proprio potere o anche odio nei confronti del suo popolo.
Però il principio universale, secondo cui un popolo ha i suoi diritti negativamente, cioè di giudicare meramente che cosa non potrebbe essere considerato come prescritto dalla suprema legislazione con tutta la sua buona volontà, è contenuto in questa proposizione: ciò che un popolo non può decretare su se stesso non può decretarlo neppure il legislatore sul popolo.125
Quanto al termine «palladio», i riferimenti alla libertà della stampa e al repubblicanesimo inglesi erano ampiamente utilizzati, nell’ambito della pubblicistica tedesca126: del termine «palladio» si serviva, già nel 1773, Christoph Martin Wieland – verosimilmente riprendendolo dalle Lettere di Junius127 – per qualificare la «libertà di ricercare e di dire» ciò che si ritenga «vero e giusto»128.
L’affermazione kantiana che la libertà della penna sia l’unico palladio dei diritti del popolo è pienamente comprensibile solo a partire dal contesto in cui il brano è collocato, ossia nell’ambito della trattazione del diritto di resistenza: un diritto positivo alla resistenza non è concepibile, secondo Kant, giacché si tratterebbe di un «contropotere [Gegenmacht] pubblicamente costituito», che dovrebbe rinviare perciò a «un secondo capo dello Stato, che protegga i diritti del popolo contro il primo»129 e così via.
La formulazione dell’argomento sulla natura della libertà della penna quale palladio, ossia quale strumento di difesa dei diritti del popolo – malgrado quest’ultimo non sia titolare di alcun diritto coattivo – è ambigua e non lineare, al pari dell’intera discussione del diritto di resistenza130. Spetta perciò al lettore il compito di ricostruire l’argomento complessivo, recuperando e collegando i passi essenziali che, nel testo, sono sparsi in paragrafi diversi o tenuti a distanza da chilometriche formule di devozione verso il potere costituito e da formali rassicurazioni di innocuità (perfino tra la «la libertà della penna» e «è l’unico palladio dei diritti del popolo» c’è un lungo inciso, che, eloquentemente, comincia con «nei limiti del rispetto e dell’amore per la costituzione in cui si vive» e si conclude con «così da non perdere le loro libertà»).
L’argomento si fonda su quattro premesse: la negazione del diritto di resistenza (il popolo non ha «alcun diritto coattivo (resistenza in parole o azioni) verso il capo dello Stato»131); l’esistenza di diritti umani inalienabili, tra i quali è inclusa la facoltà di giudicare in merito alla violazione di quei diritti medesimi («ogni essere umano ha tuttavia i suoi diritti incancellabili cui non può mai rinunciare neanche se lo volesse e su cui egli stesso è autorizzato a giudicare»132); la sovranità della volontà generale (la volontà del «comandante supremo […] dà comandi ai sudditi in quanto cittadini solo perché rappresenta la volontà generale del popolo»); la nullità di qualsiasi legge che, pur formalmente emanata, non possa essere deliberata da un popolo su se stesso («ciò che un popolo non può decretare su se stesso non può decretarlo neppure il legislatore sul popolo»).
A partire da tali premesse, l’argomento si sviluppa come un’alternativa secca, della quale un solo corno è diffusamente trattato. Che in questione ci sia un’alternativa, lo si deduce dalla prima, sibillina affermazione: «il suddito non ribelle deve poter assumere che il suo principe non voglia fargli ingiustizia»: un’alternativa scontata, e innocua, è quella in virtù della quale il suddito ribelle assuma che il principe gli stia facendo ingiustizia; resta invece provvisoriamente indefinita l’alternativa effettivamente in gioco, ossia il caso in cui il suddito non ribelle si trovi costretto ad assumere che il principe voglia fargli ingiustizia.
Il suddito non ribelle assume dunque, nel caso si ritenga vittima di un’ingiustizia, che tale ingiustizia sia involontaria e costituisca il frutto di «errore» o «disinformazione del potere supremo su certe conseguenze delle leggi» (presumere che il principe possa sbagliare o essere disinformato equivale alla mera assunzione ch’egli sia umano, precisa Kant, prevenendo l’accusa di lesa maestà): il suddito rende perciò «pubblicamente nota la sua opinione» – avendone facoltà, sulla base della seconda premessa – su ciò che, «nelle disposizioni» del principe, «gli sembra una ingiustizia». Tali disposizioni ingiuste sono, in virtù della terza e della quarta premessa, atti giuridicamente nulli: ne segue ch’esse non siano «da considerarsi come l’autentica volontà del monarca, al quale dunque possono farsi rimostranze». Il diritto che Kant presenta come meramente negativo è nientemeno che il diritto di dichiarare nulle le leggi positive («un popolo ha i suoi diritti negativamente, cioè di giudicare meramente che cosa non potrebbe essere considerato come prescritto dalla suprema legislazione»), il quale costituisce senz’altro un contropotere e – a differenza del contropotere positivo che sarebbe rappresentato dal diritto di resistenza – un contropotere che il diritto può e deve prevedere133.
Si dà dunque un solo contropotere, un’unica facoltà che il popolo detiene contro il capo di uno Stato, a tutela dei propri diritti inalienabili, e che costituisce, in quanto tale, «l’unico palladio dei diritti del popolo»: il diritto di giudicare le disposizioni statali e di rendere pubblico il proprio giudizio.
Qualora le leggi siano ingiuste, esse non vigono, secondo Kant, ancorché siano state emanate: nel caso in cui il potere supremo rifiuti di correggerle, il suddito è costretto ad assumere che gli si voglia fare ingiustizia. Il suo diritto è tuttavia solo negativo: entro l’ambito giuridico, egli può meramente dichiarare l’ingiustizia, ma non può opporsi ad essa con strumenti giuridicamente coattivi. Considerato tuttavia che le leggi ingiuste non sono diritto vigente, pretendere che esse obblighino comunque i sudditi, equivale a farlo con la forza («sebbene gli esseri umani abbiano in testa l’idea di diritti loro spettanti, sarebbero però per via della loro durezza di cuore incapaci e indegni di essere trattati in tal modo e perciò potrebbe e dovrebbe tenerli in ordine una forza [Gewalt] suprema che procede meramente secondo regole di prudenza»): non si tratta dunque più, a rigore, di diritto, ma di mera forza.
Compare così, prudentemente distanziata dalla presentazione della prima alternativa, la formulazione della seconda: «una volta che non si tratti di diritto, ma di forza, il popolo potrebbe [dürfe] mettere alla prova la sua e così rendere insicura ogni costituzione legale»134. Ove è da notarsi il verbo modale, che equivale a un’ammissione, inequivoca, della liceità morale della resistenza alle leggi ingiuste.
6. Conclusione
L’affermazione kantiana che la «libertà della penna» sia «l’unico palladio dei diritti del popolo» – aulica e di scarso significato, per il lettore odierno – costituiva, per i contemporanei di Kant, una presa di posizione politica chiara, a favore della tesi della sovranità popolare e del diritto individuale inalienabile di giudicare le azioni del potere costituito. Si trattava infatti di una frase che recava con sé l’eco di quasi un secolo di rivendicazioni politiche e di battaglie concrete e sanguinose, in favore della libertà di espressione e di stampa, dall’Inghilterra alle colonie d’oltreoceano e alla Francia.
Una costellazione di termini quali «baluardo», «palladio», «guardiana», «sentinella» o «salvaguardia», era stata utilizzata per attribuire alla libertà di espressione e di stampa il ruolo di un diritto sui generis, in grado di proteggere tutti gli altri diritti e, grazie alla vigilanza collettiva ch’esso era in grado di garantire, di opporsi agli abusi del potere e alle leggi ingiuste, qualificandosi di fatto, rispetto ai poteri politici, come un contropotere.
Quanto al riconoscimento, ampiamente diffuso, della natura potenzialmente eversiva della libertà di stampa, in grado di rovesciare, da sé sola, i governi dispotici, Kant esibiva – a rassicurare i censori – dichiarazioni formali sul carattere innocuo della libertà di pensiero e una negazione esplicita del diritto di resistenza. Affermava tuttavia, contestualmente, che le leggi ingiuste sono giuridicamente nulle e che il popolo detiene il diritto di giudicarle tali e di rendere pubblico il proprio giudizio. Qualora il capo dello Stato non provveda a recepire tale dichiarazione, non si tratta più di diritto – per Kant – bensì di mera forza e al popolo è lecito, contro la costituzione legale iniqua, mettere alla prova la propria.
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Elphège Boursin, Augustin Challamel, Dictionnaire de la révolution française: institutions, hommes & faits, Paris 1893, sub voce «Colporteurs», p. 143, https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k30405168/f163.item.texteImage (ultimo accesso, a questo e agli altri indirizzi web, il 21 dicembre 2021).↩︎
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Actes de la Commune de Paris pendant la Révolution, Tome 3, publiés et annotés par Sigismond Lacroix, https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k49129z/f209.item.texteImage.↩︎
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Edwy Plenel, La sauvegarde du peuple. Presse, liberté et démocratie, La Découverte, 2020, https://www.academia.edu/42807416/Edwy_Plenel_La_sauvegarde_du_peuple_Presse_libert%C3%A9_et_d%C3%A9mocratie.↩︎
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M. Arago, Biographie de Jean-Sylvain Bailly, astronome de l’ancienne Académie des sciences, membre de l’Académie francaise et de l’Académie des inscriptions et belles-lettres, premier président de l’Assemblée constituante premier maire de Paris, etc., in Mémoires de l’Académie des sciences de l’Institut de France, Paris, Gauthier-Villars, 1853, vol. 23, pp. lxiii-ccxliv, https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k32372/f178.image.r=boulangeres.↩︎
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Proclamation. Hôtel de ville de Paris, comité provisoire. Subsistances. (13 août), https://gallica.bnf.fr/view3if/ga/ark:/12148/bpt6k3259711.↩︎
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François Furet, Penser la Révolution française, Paris, PUF, 1978, pp. 69 e sg., https://www.thecharnelhouse.org/wp-content/uploads/2016/03/franccca7ois-furet-penser-la-recc81volution-franccca7aise-1985.pdf .↩︎
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V. Franz Schneider, Presse, Pressfreiheit, Zensur, in Geschichtliche Grundbegriffe, a cura di Otto Brunner, Werner Conze, Reinhart Koselleck, Stuttgart, Klett-Cotta, 1978, vol. 4, pp. 899-927: 902.↩︎
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V. ad es. Camille Desmoulins, «Le Vieux Cordelier», 7, 1794, p. 141, https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k10454822/f25.item: «Precauzioni, tortuosità, cortesia, circospezione, la monarchia è tutto questo. Il carattere della repubblica è quello di non dissimulare nulla, di andare dritto al punto, allo scoperto, e di chiamare uomini e cose con i loro nomi. La monarchia fa tutto nel gabinetto, nei comitati e attraverso la sola segretezza; la repubblica, tutto nella tribuna, alla presenza del popolo e con la pubblicità».↩︎
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Nel 1781, Jacques Necker aveva aperto il suo Compte rendu au roi sullo stato delle finanze – del quale furono vendute più di 100.000 copie in quel solo anno e che fu subito oggetto di numerose traduzioni (di cui almeno quattro in tedesco) – con un elogio della pubblicità dei conti dello Stato, giacché «le tenebre e l’oscurità favoriscono la trascuratezza» e la pubblicità, al contrario, costringe all’onestà (pp. 1 e sgg., 74, https://archive.org/details/compterenduauroi00neck/page/n7). Sul ruolo che fu attribuito al Compte rendu, quanto agli eventi successivi, v. ad es. Anonimo (Karl Friedrich Reinhard), Uebersicht einiger vorbereitenden Ursachen der französischen Staats-Veränderung, «Thalia», 3, 12/1791, pp. 30–77: 62: http://ds.ub.uni-bielefeld.de/viewer/image/1944380_012/30/LOG_0005/: « Così la pubblicità negli affari di stato ricevette il suo primo trionfo, e l’opinione pubblica la sua prima direzione decisiva. […] le voci di amici e nemici si uniscono nel dire che la rivoluzione risale al compte rendu. La pubblicità è la morte del dispotismo: perché guida l’opinione pubblica».↩︎
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V. ad es. Jacques Pierre Brissot de Warville, L’ombre de J.P. Brissot, aux législateurs français, sur la liberté de la presse, ou, Extrait fidelle d’un imprimé ayant pour titre, Mémoire aux États-généraux sur la nécessité de rendre dès ce moment la presse libre, et sur-tout pour les journaux politiques, a cura di F. Dethier, Paris, Vatar, 1798, p. 9, https://archive.org/details/lombredejpbrisso00bris/page/8/mode/2up: «Le operazioni dei rappresentanti della nazione devono essere illuminate a giorno, sono gli interessi del popolo che vi devono essere discussi; il popolo ha dunque il diritto di conoscerne i dettagli e ha di conseguenza il diritto di esigere che i dettagli gli siano trasmessi dalle gazzette. Il mistero è buono solo per coprire le iniquità, ed è per questo che i governi dispotici si sono sempre avvolti nei misteri. Hanno persuaso i popoli che questo mistero fosse una parte essenziale dell’arte di governare».↩︎
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Jeremy Bentham, Draught of a Code For The Organization of the Judicial Establishment in France: with Critical Observations on The Draught Proposed by the National Assembly Committee, in the Form of a Perpetual Commentary, 1790, in The Works of Jeremy Bentham, published under the Superintendence of his Executor, John Bowring, Edinburgh, William Tait, 1838-1843, vol. 4, p. 316, https://oll.libertyfund.org/title/bowring-the-works-of-jeremy-bentham-vol-4#Bentham_0872-04_2888: «La pubblicità è l’anima stessa della giustizia. è il più acuto stimolo allo sforzo, e la più sicura di tutte le guardie contro la scorrettezza. Mantiene il giudice stesso, mentre processa, sotto processo. Sotto gli auspici della pubblicità, la causa in tribunale e l’appello al tribunale dell’opinione pubblica si svolgono contemporaneamente».↩︎
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V. Philippe Münch, Révolution française, opinion publique et transparence: les fondements de la démocratie moderne, «Appareil», 7, 2011, https://journals.openedition.org/appareil/1220.↩︎
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Anonimo, Les milles et un abus, 1789, p. 54, https://archive.org/details/lesmilleetunabus00unse/page/54/mode/2up.↩︎
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Alexander Gottlieb Baumgarten, Initia philosophiae practicae primae acroamatice, Halle, Hemmerde, 1760, riprodotto in Kant’s gesammelte Schriften, Berlin, a cura dell’Accademia Prussiana delle Scienze, W. de Gruyter, 1900 e sgg. (d’ora in poi, AA), XIX, pp. 9-71, https://korpora.zim.uni-duisburg-essen.de/Kant/agb-initia/index.html.↩︎
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Immanuel Kant, Reflexionen zur Moralphilosophie, Reflexionen 7081, 7082, 7083, in AA, XIX, pp. 244-245, https://korpora.zim.uni-duisburg-essen.de/Kant/aa19/244.html. Cfr. Klaus Blesenkemper, “Publice age”. Studien zum Offentlichkeitsbegriff bei Kant, Frankfurt am Main, Haag und Herchen, 1987; Volker Gerhardt, Öffentlichkeit bei Kant, in Kant und die Philosophie in weltbürgerlicher Absicht. Akten des XI. Internationalen Kant-Kongresses, a cura di Stefano Bacin, Alfredo Ferrarin, Claudio La Rocca, Margit Ruffing, Berlin/Boston, Walter de Gruyter GmbH, 2013, IV, pp. 659-675.↩︎
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AA, XXVII, pp. 1210, 1224, 1276, 1427; Immanuel Kant, Lezioni di etica, trad. it. a cura di Augusto Guerra, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 49 (le traduzioni dei testi di Kant sono state tacitamente modificate ogni qualvolta lo si sia ritenuto opportuno).↩︎
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V. John Christian Laursen, The Subversive Kant: The Vocabulary of “Public” and “Publicity”, «Political Theory», 14, 4/1986), pp. 584-603, http://www.jstor.org/stable/191281; Giuliano Marini, La filosofia cosmopolitica di Kant, a cura di Nico De Federicis e Maria Chiara Pievatolo, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 197-210, https://archiviomarini.sp.unipi.it/101/1/La_filosofia_cosmopolitica_di__Kant.pdf.↩︎
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Immanuel Kant, Per la pace perpetua. Un progetto filosofico di Immanuel Kant, in AA, VIII, pp. 381, 386, https://korpora.zim.uni-duisburg-essen.de/kant/aa08/381.html; trad. it. in Immanuel Kant, Sette scritti politici liberi, a cura di Maria Chiara Pievatolo, Firenze, Firenze University Press, 2011, https://btfp.sp.unipi.it/dida/kant_7/ar01s10.xhtml#appendice. Si vedano, ivi, le Annotazioni della curatrice, https://btfp.sp.unipi.it/dida/kant_7/ar01s11.xhtml#appendicedue.↩︎
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V. Dictionnaire de L’Académie française, 17624, s.v. «Palladium», https://portail.atilf.fr/cgi-bin/dico1look.pl?strippedhw=palladium&dicoid=ACAD1762&headword=&dicoid=ACAD1762: «Significa propriamente una statua di Pallade. Poiché questa statua era considerata come il pegno della conservazione di Troia, l’antichità pagana ha designato da allora sotto il nome di Palladio, i vari oggetti ai quali le città e gli imperi legano la loro durata».↩︎
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François Quastana, Pierre Serna, Le républicanisme anglais dans la France des Lumières et de la Révolution: mesure d’une présence, «La Révolution française», 5, 2013, http://journals.openedition.org/lrf/984.↩︎
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Sui rapporti tra inglesi e francesi, che «anche quando si odiavano […] rimanevano intensamente interessati l’uno all’altro», v. Derek Jarrett, The begetters of revolution. England’s involvement with France, 1759-1789, 1973, https://archive.org/details/begettersofrevol1789jarr.↩︎
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Raymonde Monnier, Les enjeux de la traduction sous la Révolution française. La transmission des textes du républicanisme anglais, «The Historical Review/La Revue Historique», 12, 2015, pp. 13-46, https://doi.org/10.12681/hr.8800.↩︎
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Honoré-Gabriel de Riquetti, comte de Mirabeau, Sur la liberté de la presse, Imité de l’Anglois, de Milton, a Londres, 1788, https://archive.org/details/surlalibertedela00mira.↩︎
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Olivier Lutaud, Emprunts de la Révolution française à la première révolution anglaise. De Stuart à Capet, de Cromwell à Bonaparte, «Revue d’histoire moderne et contemporaine», 37, 4/1990, pp. 589-607: 597, http://www.jstor.org/stable/20529700; Tony Davies, Borrowed language: Milton, Jefferson, Mirabeau, in Milton and Republicanism, a cura di David Armitage, Armand Himy, Quentin Skinner, New York, Cambridge University Press, 1998, pp. 254-271: 265 e sgg.↩︎
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Keith Michael Baker, Transformations of Classical Republicanism in Eighteenth‐Century France, «The Journal of Modern History», 73, 1/2001, pp. 32-53, https://www.jstor.org/stable/10.1086/319878; trad. it. Le trasformazioni del repubblicanesimo classico nella Francia del Settecento, in Libertà politica e virtù civile. Significati e percorsi del repubblicanesimo classico, a cura di M. Viroli, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 2004, pp. 149-175.↩︎
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Benjamin Straumann, Crisis and Constitutionalism. Roman Political Thought from the Fall of the Republic to the Age of Revolution, New York, Oxford University Press 2016, pp. 303-342.↩︎
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L’espressione è di Giorgio Tonelli, Qu’est-ce que l’histoire de la philosophie?, «Revue Philosophique de la France et de l’étranger», 152 (1962), pp. 289-306, https://www.jstor.org/stable/41089978.↩︎
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V. David S. Bogen, The Origins of Freedom of Speech and Press, «Maryland Law Review», 42, 3/1983, pp. 429-465, http://digitalcommons.law.umaryland.edu/mlr/vol42/iss3/3. Sulle Lettere di Catone – 144 articoli scritti settimanalmente da John Trenchard e Thomas Gordon, da novembre 1720 al dicembre 1723, per il «London Journal» – v. Robb A. McDaniel, Cato’s Letters, https://www.mtsu.edu/first-amendment/article/857.↩︎
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Anche Bailly, come ricorda Plenel, ebbe rapporti con Benjamin Franklin, il quale intratteneva una fitta corripondenza, tra gli altri, con Gaetano Filangieri, al quale aveva inviato, nel 1783, per un commento, il «codice delle americane costituzioni». V. La letteratura italiana. Storia e testi. Illuministi italiani. Riformatori Napoletani, a cura di Franco Venturi, vol. 46, tomo V, Milano-Napoli, Ricciardi 1962, p. 629.↩︎
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Nel 1722, Benjamin Franklin, che lavorava come apprendista per il «New-England Courant», la rivista fondata dal fratello James l’anno precedente, vi pubblicò, nella forma di lettere all’editore e con lo pseudonimo di Mrs. Silence Dogood – vedova di un ecclesiastico di campagna, «nemica del vizio e amica della virtù», nonché «nemica mortale del governo arbitrario e del potere illimitato» – alcuni articoli satirici. Dopo che James fu condannato a qualche settimana di prigione, a causa dell’affronto alle autorità governative contenuto in un articolo del «New-England Courant» che criticava la politica governativa di contrasto alla pirateria, Benjamin pubblicò, nel numero del 2-9 luglio 1722, un ampio stralcio della lettera di Gordon sulla libertà di parola.↩︎
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Cato’s Letters, or Essays on Liberty, Civil and Religious, and Other Important Subjects, a cura di Ronald Hamowy, Indianapolis, Liberty Fund, 1995, vol. 1, https://oll.libertyfund.org/title/gordon-cato-s-letters-vol-1-november-5-1720-to-june-17-1721-lf-ed#lf0226-01_head_021; trad. it. in John Trenchard, Thomas Gordon, Cato’s Letters. Antologia, a cura di Carlo Lottieri, Liberilibri, 1997, pp. 3 e sgg.↩︎
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V. Arthur Hill Cash, John Wilkes: the scandalous father of civil liberty, New Haven – London, Yale University Press, 1922, https://archive.org/details/johnwilkes00arth_0.↩︎
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«The North Briton», n. I, June, 5, 1762, https://archive.org/details/northbriton00wilkgoog/page/n12/mode/2up.↩︎
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The Virginia Declaration of Rights, Section 12, https://www.archives.gov/founding-docs/virginia-declaration-of-rights.↩︎
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V. Arthur Hill Cash, John Wilkes, cit. p. 294. Quanto all’identità di Junius, v. L. Sutherland, W. Doyle, J.M.J. Rogister, Junius and Philip Francis: new evidence, in L. Sutherland, Politics and Finance in the Eighteenth Century, London, 1984, pp. 471-490, https://archive.org/details/politicsfinancei0000suth/page/471/mode/2up.↩︎
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The Letters of Junius, a cura di John Wade, London, George Bell and Sons, 1890, vol. 1, p. 88, https://archive.org/details/juniusincludingl01juniuoft/page/88/mode/2up.↩︎
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Diderot si congratulò con Wilkes della sua elezione (Denis Diderot, Correspondance générale, Texte établi par J. Assézat et M. Tourneux, Garnier, XIX, pp. 498-500, https://fr.wikisource.org/wiki/Correspondance_(Diderot)/41).↩︎
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William Pitt, Correspondence of William Pitt, Earl of Chatham, ed. by the executors of his son, John, Earl of Chatham, IV, London, John Murray, 1838, p. 123.↩︎
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The Letters of Junius, cit., pp. 255-270.↩︎
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Jean-Paul Marat, Oeuvres politiques et patriotiques, de Marat l’ami du peuple, député à la Convention nationale, proposées par souscription. Prospectus, p. 3; ripubblicato in Jean-Paul Marat, Oeuvres politiques, 1789-1793, eds. Jacques de Cock and Charlotte Goetz, Brussels, 1989-1995, vol. 8, pp. 4918-22, cit. in Nigel Ritchie, An Anglo-French revolutionary? Jean-Paul Marat channels the spirits of Wilkes and Junius, «French History», 30, 2/2016, pp. 181–196: 194 in n.↩︎
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Sulla complessa transizione, nella Francia di fine Settecento, dal crimine di lèse-majesté a quello di lèse-nation¸ v. George Armstrong Kelly, From Lèse-Majesté to Lèse-Nation: Treason in Eighteenth-Century France, «Journal of the History of Ideas», 42, 2/1981, pp. 269-286, https://www.jstor.org/stable/2709320.↩︎
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Jean-Paul Marat, «L’Ami du peuple, ou le Publiciste parisien: journal politique et impartial», 102, 19 Janvier 1790, p. 5, https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k1046386p/f5.item. V. Nigel Ritchie, An Anglo-French revolutionary? Jean-Paul Marat channels the spirits of Wilkes and Junius, cit.↩︎
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Dénonciation faite au tribunal du public, par M. Marat, l’ami du peuple, contre M. Necker, premier ministre des finances, 1790, https://archive.org/details/denonciationfait00mara/page/6.↩︎
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Emilie Brémond-Poulle, La dénonciation chez Marat (1789 – 1791), Révolution-Française.net Editions, 2006 https://revolution-francaise.net/editions/bremond_denonciation-marat.pdf.↩︎
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V. Nigel Ritchie, An Anglo-French revolutionary?Jean-Paul Marat channels the spirits of Wilkes and Junius, cit., p. 193 in n. ↩︎
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Camille Desmoulins, «Révolutions de France et de Brabant», 55, 1790, p. 117, https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k10572524/f19.item.↩︎
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Appel nominal qui a eu lieu dans la séance permanente du 13 au 14 avril 1793, l’an deuxième de la République française : à la suite du rapport du Comité de législation, sur la question: Y a-t-il lieu à accnsation [i.e. accusation] contre Marat, membre de la Convention nationale; imprimé par ordre de la Convention nationale, envoyé à tous les départemens & aux armées, A Laval, De l’imprimerie de Dariot, p. 9, https://archive.org/details/appelnominalquie00fran_0/page/8/mode/2up. Cfr. Eugéne Hatin, Histoire politique et littéraire de la presse en France, vol. 6, Paris, 1860, p. 186 e sg., https://archive.org/details/histoirepolitiq22hatigoog/page/n195.↩︎
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Il motto «Vivere libero o morire», compariva, dal settembre 1789, sulla bandiera di un battaglione della Guardia nazionale –quello del distretto delle Filles de Saint-Thomas – su suggerimento del suo comandante, Louis-Félix Guinement Keralio. La figlia, Louise-Félicité de Keralio, lo pose in epigrafe nel suo «Journal d’état et du citoyen». Era anche il motto della società degli Amici della Costituzione (o Club dei Giacobini). V. Geffroy Annie, Les cinq frères Keralio, «Dix-huitième siècle», 40, 1/2008, p. 69-77, https://doi.org/10.3917/dhs.040.0069.↩︎
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Nel 1724, alla morte di Trenchard, Gordon ne aveva sposato la ricca vedova, conquistandosi la tranquillità finanziaria che gli consentì di dedicarsi alle traduzioni di Tacito e Sallustio. V. C. Robbins, The English Commonwealthman: Studies in the Transmission, Development and Circumstances of English Liberal Thought from the Restoration of Charles II until the War with the Thirteen Colonies New York, Atheneum, 1968, pp. 115 e sg., https://archive.org/details/eighteenthcentur00robb/page/114; Rachel Hammersley, Camille Desmoulins’s Le Vieux Cordelier: a link between English and French republicanism, «History of European Ideas», 27/2001, pp. 115–132, https://www.academia.edu/577686/Camille_Desmoulinss_Le_Vieux_Cordelier_a_link_between_English_and_French_republicanism_1. Sull’utilizzo, da parte di Desmoulins, della traduzione di Tacito fatta da Gordon, v. Henri Calvet, Un plagiat de Camille Desmoulins: Le N° 3 du ‘Vieux Cordelier‘, «Revue Historique», 172, 3/1933, pp. 455-469, http://www.jstor.org/stable/40945338.↩︎
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Cfr. Charles de Secondat barone di Montesquieu, L’esprit de lois, Livre XIX, Chap. XXVII, in Oeuvres complètes de Montesquieu, a cura di édouard Laboulaye, Tome 4, Paris 1877, p. 346, https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k9610754h/f362.item, trad. it. Lo spirito delle leggi, a cura di Sergio Cotta, Torino, UTET, 2005, p. 514: «per godere della libertà, occorre che ciascuno possa dire ciò che pensa e che, per conservarla, bisogna ancora che ciascuno possa dire ciò che pensa». Sulle immagini, in Francia, a partire da Montesquieu, del modello politico inglese, v. Eugenio Di Rienzo, Sguardi sul Settecento. Le ragioni della politica tra antico regime e rivoluzione, Napoli, Guida, 2007, pp. 77-96, https://www.academia.edu/18820425/Sguardi_sul_Settecento_Le_ragioni_della_politica_tra_antico_regime_e_rivoluzione.↩︎
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Camille Desmoulins, «Le Vieux Cordelier», 7, 1794, pp. 123 e sg., https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k10454822/f7.item. Sul topos del dispotismo orientale, nonché sul termine «dispotismo», è da vedersi Richard Koebner, Despot and Despotism: Vicissitudes of a Political Term, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 14, 3-4/1951, pp. 275-302, https://www.jstor.org/stable/750343.↩︎
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Camille Desmoulins, «Le Vieux Cordelier», 3, 1793, p. 45, https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k1045474h/f21.item; ivi, 7, 1794, p. 153, https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k10454822/f37.item.↩︎
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éloge de M. Loustalot, prononcé devant la société des Amis de la Constitution, in «Révolution de France et de Brabant», 45, 1790, pp. 253-267: 261, https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k1056976n/f11.item. Su Loustalot, cfr. Gilles Feyel, Le journalisme au temps de la Révolution: un pouvoir de vérité et de justice au service des citoyens, «Annales historiques de la Révolution française», 333, 2003, http://journals.openedition.org/ahrf/843.↩︎
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L’edizione completa e critica di Le Vieux Cordelier, d’après les notes de Albert Mathiez avec une Introduction et des Commentaires par Henri Calvet, Paris, Colin, 1936, non contiene ipotesi, quanto all’individuazione dello «scrittore inglese».↩︎
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The Letters of Junius, cit., p. 102.↩︎
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V. l’Introduzione di David Lieberman, a Jean-Louis De Lolme, The Constitution of England; Or, an Account of the English Government, Indianapolis, Liberty Fund, 2007, https://oll.libertyfund.org/title/lieberman-the-constitution-of-england-or-an-account-of-the-english-government#lfDeLolme_head_001. Su come, in America, il pensiero politico di Montesquieu fosse letto alla luce del saggio di De Lolme, v. Brunella Casalini, L’esprit di Montesquieu negli Stati Uniti d’America durante la seconda metà del XVIII secolo, in Montesquieu e i suoi interpreti, a cura di Domenico Felice, Pisa, ETS, 2005, pp. 325-356, https://archiviomarini.sp.unipi.it/100/ .↩︎
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The Letters of Junius, cit., p. 102; nella prima edizione, in francese, del 1771, del testo di Jean-Louis De Lolme citato, le parole «ce qui ne seroit pas moins difficile» non erano racchiuse tra parentesi (Constitution de l’Angleterre ou état du gouvernement anglais comparé avec la forme républicaine et avec les autres monarchies de l’Europe, Amsterdam 1771, p. 232 e sg., https://archive.org/details/constitutiondel02lolmgoog/page/n241/mode/2up).↩︎
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Che il dibattito pubblico avesse in generale un effetto destabilizzante era stato osservato, tra gli altri, da Henri Dubois de Launay, Coup d’oeil sur le gouvernement anglais, 1786: «Questa libertà di brontolare e lamentarsi dei governi stabiliti è una fonte inesauribile di problemi e rivoluzioni» cit. in Keith Michael Baker, Public opinion as political invention, in Inventing the French Revolution. Essays on French Political Culture in the Eighteenth Century, New York, Cambridge University Press, 1990, p. 167-199: 180, https://archive.org/details/inventingfrenchr0000bake/page/180/mode/2.↩︎
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Anonimo, Les milles et un abus, cit., pp. 53 e sg; https://archive.org/details/lesmilleetunabus00unse/page/52/mode/2up. Jacques Pierre Brissot de Warville scriveva, analogamente, nel 1789: « In tutti i tempi è stata proscritta esattamente la verità necessaria alle circostanze, il contro-veleno necessario per distruggere l’effetto del veleno del momento» (L’ombre de J.P. Brissot, aux législateurs français, sur la liberté de la presse, cit., p. 6, https://archive.org/details/lombredejpbrisso00bris/page/6/mode/2up).↩︎
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Marco Tullio Cicerone, De lege agraria, II, VI, 15: «tribunum plebis, quem maiores praesidem libertatis custodemque esse voluerunt».↩︎
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Sulla figura del giornalista-censore in Desmoulins, v. Suzanne Levin, La magistrature de la presse au miroir de l’Antiquité selon Camille Desmoulins, in «Annales historiques de la Révolution française», 384, 2/2016, p. 55-82, https://www.cairn.info/revue-annales-historiques-de-la-revolution-francaise-2016-2-page-55.htm.↩︎
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Jean-Louis De Lolme, Constitution de l’Angleterre, cit., pp. 220 e sgg. Ricorrente era anche l’idea che la stampa avesse dato alla scrittura lo stesso carattere pubblico della parola nelle assemblee dell’antichità. V. ad es. Chrétien-Guillaume de Lamoignon de Malesherbes, Discours prononcés dans l’Académie françoise, le jeudi XVI février M. DCC. LXXV, à la réception de M. de Lamoignon de Malesherbes, 1775, p. 5, https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k6136575k/f5.item: «Il pubblico ha un’avida curiosità per gli oggetti che gli sono stati in precedenza più indifferenti. è stato istituito un tribunale indipendente da tutti i poteri e che tutti i poteri rispettano, che apprezza tutti i talenti, che si pronuncia su tutti i generi di merito; e in un secolo illuminato, in un secolo in cui ogni cittadino può parlare a tutta la nazione attraverso il mezzo della stampa, coloro che hanno il talento di istruire gli uomini o il dono di commuoverli, gli uomini di lettere, in una parola, sono in mezzo al pubblico disperso, quello che erano gli oratori di Roma e di Atene in mezzo al popolo riunito». V. Keith Michael Baker, Public opinion as political invention, cit., pp. 188 e sg.↩︎
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Cfr. Jean-Louis De Lolme, Constitution de l’Angleterre, cit., p. 245: «è riguardo a questo diritto a una resistenza finale che si vede, soprattutto, il vantaggio di un mezzo quale la libertà della stampa».↩︎
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Thomas Erskine, Speeches when at the Bar on subjects connected with the liberty of the press, and against constructive treasons, London, Ridgway, 1810, pp. 139 e sg., https://archive.org/details/speecheswhenatba02erskuoft/page/138/mode/2up. Erskine specificava che il diritto di resistenza non è un diritto individuale: «niente a parte la volontà di un INTERO POPOLO può cambiare o influenzare la regola con cui una nazione deve essere governata» (ivi, p. 98).↩︎
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Thomas Carlyle, On Heroes and Hero Worship and the Heroic in History, London, Chapman and Hall, 1840, p. 152, https://archive.org/details/heroesheroworshi00carl/page/152/mode/2up; trad. it. Gli eroi, a cura di Maria Pezze Pascolato, Firenze, G. Barbera, 1921, pp. 211 e sg., https://archive.org/details/carlyle-gli-eroi/page/210/mode/2up: «Burke diceva che v’erano nel parlamento tre stati; ma che lassù, nella tribuna dei giornalisti, sedeva un quarto stato, ben più importante degli altri tutti. Non è figura rettorica, né motto spiritoso: è, letteralmente, un fatto, e importantissimo per noi in questi tempi. […] La stampa, che deriva necessariamente dalla scrittura, lo dico sovente, equivale alla democrazia: inventata la scrittura, la democrazia è inevitabile. […] Chiunque sa parlare, diviene ora una potenza, poiché parla all’intera nazione; diviene un ramo del governo, con influenza inalienabile sulla compilazione delle leggi, e su ogni atto d’autorità. Non importa a quale grado appartenga […]: unico requisito, ch’egli abbia una lingua, cui gli altri porgeranno ascolto; questo si richiede, e null’altro. La nazione è governata da tutto ciò che nella nazione ha lingua: ecco virtualmente la democrazia. […] La democrazia virtualmente esistente insisterà per avere esistenza sensibile». Sulla concezione della libertà in Burke, v. Mauro Lenci, Montesquieu, Burke e l’Illuminismo, in Montesquieu e i suoi interpreti, cit., pp. 433-459, http://www.montesquieu.it/biblioteca/Testi/Montes_interpreti.pdf.↩︎
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V. Jürgen Habermas, Strukturwandel der Offentlichkeit. Untersuchungen zu einer Kategorie der burgerlichen Gesellschaft, Neuwied, Hermann Luchterhand, 1962; trad. it. Storia e critica dell’opinione pubblica, a cura di Augusto Illuminati, Ferruccio Masini e Wanda Perretta, Roma-Bari, Laterza 1984.↩︎
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Keith Michael Baker, Public opinion as political invention, cit., p. 172. Cfr. Brunella Casalini, Opinione pubblica. Appunti sulla storia e sulla crisi di un concetto, in «Bollettino telematico di filosofia politica», https://bfp.sp.unipi.it/bruop/index.html.↩︎
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Sull’opera di Filangieri – nota e ammirata in Francia, oltre che nel resto d’Europa, per le sue prese di posizione a favore della rivoluzione americana e in difesa dei diritti dell’uomo – v. Vincenzo Ferrone, La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell’uomo in Gaetano Filangieri, Bari, Laterza, 2008; Pietro Costa, Carla De Pascale, Mario Ricciardi, Gaetano Filangieri’s The Science of Legislation, Edizioni della Laguna, 2003-2004, in «Iris. European Journal of Philosophy and Public Debate», 1/2009, pp. 253-276, https://air.unimi.it/retrieve/handle/2434/189160/206608/On%20Filangieri%27s%20Science%20of%20Legislation.pdf.↩︎
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Index librorum prohibitorum sanctissimi domini nostri Pii Sexti pontificis maximi jussu editus, Roma, 1786, https://archive.org/details/indexlibrorumpro00romauoft/page/322/mode/2up?q=filangieri.↩︎
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Gaetano Filangieri, La scienza della legislazione, edizione critica diretta da Vincenzo Ferrone, Venezia, Centro di studi sull’illuminismo europeo G. Stiffoni; Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna, 2004, vol. 5, a cura di Paolo Bianchini; edizione disponibile online: La scienza della legislazione del Cavalieri Gaetano Filangieri, Napoli, nella Stamperia Raimondiana, 1785, Libro IV, Parte III, Capo LII, Della Libertà della Stampa, pp. 145-157, https://archive.org/details/bub_gb_WDpHhK_4JpUC/page/n163/mode/2up.↩︎
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Matthew Tindal, Of the Liberty of the Press; in a letter to a member of Parliament, in Idem, Four Discourses, London, 1709, pp. 293-329, https://babel.hathitrust.org/cgi/pt?id=nnc1.cu56691041&view=1up&seq=303. Il testo era una ristampa di A letter to a member of Parliament, shewing, that a restraint on the press is inconsistent with the Protestant religion, and dangerous to the liberties of the nation, London, J. Darby, 1698, scritta contro il rinnovo del Licensing act del 1662. V. Stephen Lalor, Matthew Tindal, Freethinker. An Eighteenth-century Assault on Religion, London, New York, Continuum, 2006, pp. 44-53; Maria Chiara Pievatolo, La comunicazione del sapere, 2007-2008, https://btfp.sp.unipi.it/dida/fpa/ar01s02.xhtml#privicopi.↩︎
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Matthew Tindal, Four Discourses, cit., p. iv.↩︎
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Ivi, p. 323.↩︎
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Maximilien Robespierre, Discours sur la liberté de la presse, prononcé à la Société des amis de la constitution, le 11 mai 1791, Paris, Imprimerie nationale, 1791, in Idem, Oeuvres, recueillies et et annotées par A. Vermorel, Paris, Achille Faure, 1867, pp. 161-182: 161 e sg., https://numelyo.bm-lyon.fr/f_view/BML:BML_00GOO0100137001101984420/IMG00000177. Un incipit analogo, l’anno precedente, in Louis-Félix Guinement Keralio, De la Liberté d’énoncer, d’écrire et d’imprimer la pensée, Lille, Potier, 1790, p. 1, https://archive.org/details/de-la-liberte-d-enoncer-d-ecrire-et-d: «Il dono più prezioso che gli uomini abbiano ricevuto dalla natura è la capacità di comunicare i loro pensieri; è per questo dono che essi si distinguono dai bruti e si elevano al di sopra di loro: senza di esso, le società umane non esisterebbero»; lo scritto si concludeva osservando che «la nazione», «se non avesse questa illimitata libertà, salvaguardia di tutte le altre, […] dovrebbe conquistarla con una nuova rivoluzione» (ivi, p. 58).↩︎
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Maximilien Robespierre, Discours sur la liberté de la presse, cit., p. 168.↩︎
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Ivi, p. 176. La metafora della sentinella era comune; v., ad es., la citazione in exergo a Le patriote François, Journal libre, impartial et national, Par une Société de Citoyens, & dirigé par J. P. Brissot de Warville: «Une Gazette libre est une sentinelle; qui veille sans cesse pour le peuple. D. Jebb», https://babel.hathitrust.org/cgi/pt?id=coo.31924050382799&view=1up&seq=33.↩︎
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Maximilien Robespierre, Discours sur la liberté de la presse, cit., p. 174.↩︎
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Honoré-Gabriel Riqueti, conte di Mirabeau, Lettre du comte de Mirabeau au Comité des recherches, Paris, 1789, p. 4: https://numelyo.bm-lyon.fr/f_view/BML:BML_00GOO0100137001101983232/IMG00000004.↩︎
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Maximilien Robespierre, Discours de Maximilien Robespierre, sur le parti que l’Assemblée nationale doit prendre relatviement à la proposition de guerre, annoncée par le pouvoir exécutif : prononcé à la société, le 18 décembre 1791, Paris, De l’imprimerie du Patriote françois, 1791, p. 18, https://archive.org/details/discoursdemaximi00robe_10/page/18/mode/2up.↩︎
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Katlyn Marie Carter, The Comités Des Recherches: Procedural Secrecy and the Origins of Revolutionary Surveillance, «French History», 32, 1/2018, pp. 45–65, https://academic.oup.com/fh/article/32/1/45/4919512. V. anche Philippe Münch, Révolution française, opinion publique et transparence, cit.↩︎
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Matthew Tindal, Of the Liberty of the Press, cit., p. 309 (corsivo mio), https://babel.hathitrust.org/cgi/pt?id=nnc1.cu56691041&view=1up&seq=319.↩︎
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(Johann Lorenz Schmidt), Beweis, daß das Christentum so alt als die Welt sey, nebst Herrn Jacob Fosters Widerlegung desselben. Beydes aus dem Englischen übersetzt, Frankfurt und Leipzig, 1741, p. 16, https://digitale.bibliothek.uni-halle.de/vd18/content/titleinfo/1654717. Su Schmidt, v. Paul S. Spalding, Seize the Book, Jail the Author: Johann Lorenz Schmidt and Censorship in Eighteenth-Century Germany, West Lafayette, Purdue University Press, 1998.↩︎
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V. ad es. Immanuel Kant, Kritik der reinen Vernunft (d’ora in poi, KrV), A 751; trad. it. Critica della ragion pura, a cura di Pietro Chiodi, Torino, UTET, 1967, pp. 574 e sg.↩︎
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Matthew Tindal, Of the Liberty of the Press, cit., p. 319: non può esserci altra ragione, per impedire agli uomini di scrivere liberamente sul governo «se non quella di impedire che i difetti del governo, o della sua gestione, siano scoperti e corretti». Sul passaggio, nel pensiero politico inglese, dalla richiesta della libertà religiosa a quella della libertà politica, v. Mauro Lenci, Le metamorfosi dell’antilluminismo. Aspetti ed itinerari del dibattito sui Lumi nella storia del pensiero politico, Edizioni PLUS, 2007, pp. 43-51, https://bfp.sp.unipi.it/ebooks/lenci.html.↩︎
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KrV, A XI in n. (ultimi due corsivi miei); trad. it. cit., p. 65 in n.↩︎
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KrV, A 752 (corsivo mio); trad. it. cit., p. 575. Anche Spinoza aveva sostenuto che «in una libera repubblica è lecito a chiunque di pensare quello che vuole e di dire quello che pensa» e che con la costituzione dello Stato «è soltanto al diritto di agire di proprio arbitrio, che ciascuno rinunciò, e non a quello di ragionare e di giudicare; e perciò, mentre nessuno può agire contro il decreto delle sovrane potestà, è lecito comunque a ognuno, senza lederne il diritto, pensare e giudicare, e quindi anche parlare, contro il loro decreto, purché parli o insegni semplicemente, e sostenga ciò che dice seguendo la sola ragione» (Benedetto Spinoza, Trattato teologico-politico, trad. it. a cura di Antonio Droetto e Emilia Giancotti Boscherini, Torino, Einaudi, 19802, cap. XX, pp. 480, 482 e sg.).↩︎
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Georg Mohr, Publicité de la raison, droit et cosmopolitisme chez Kant, in Raison pratique et normativité chez Kant: Droit, politique et cosmopolitique, a cura di Jean-François Kervégan, Lyon, ENS éditions, 2010, http://books.openedition.org/enseditions/4460.↩︎
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KrV, A 738; trad. it. cit., p. 566.↩︎
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Matthew Tindal, Of the Liberty of the Press, cit., p. 299.↩︎
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Immanuel Kant, Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, in AA, VIII, pp. 33-42, https://korpora.zim.uni-duisburg-essen.de/Kant/aa08/033.html; trad. it. Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? (d’ora in poi, WIA), in Immanuel Kant, Sette scritti politici liberi, cit., pp. 53-59, https://btfp.sp.unipi.it/dida/kant_7/ar01s04.xhtml. Si vedano, ivi, le Annotazioni della curatrice, pp. 60-68.↩︎
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Così John Christian Laursen e Johan van der Zande, nell’Introduzione a Carl Friedrich Bahrdt’s On Freedom Of The Press And Its Limits: For Consideration By Rulers, Censors, And Writers (1787), in Christian Laursen, Elie Luzac, Johan Van Der Zande, Early French and German Defenses of Freedom of the Press, Brill Academic Pub, 2003, pp. 91- 105: 98.↩︎
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Gli interventi di Johann Carl Wilhelm Möhsen, Was ist zu thun zur Aufklärung der Mitbürger?, e quello di Klein, in risposta a Möhsen, sono riportati in Ludwig Keller, Die Berliner Mittwochs-Gesellschaft. Ein Beitrag zur Geschichte der Geistesentwicklung Preussens am Ausgange des 18. Jahrhunderts, «Monatshefte der Comenius Gesellschaft», 5, 3-4/1896, pp. 67-94: 73 e sgg., https://archive.org/details/monatsheftederc01comegoog/page/n86/mode/2up. La discussione è ricostruita, con particolare riferimento alla questione della libertà della stampa, da Eckhart Hellmuth, Enlightenment and Freedom of the Press: The Debate in the Berlin Mittwochsgesellschaft, 1783–1784, «History», 83, 271/1998, pp. 420-444, https://www.jstor.org/stable/24423200.↩︎
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Michael J. Sauter, Visions of the enlightenment: the edict on religion of 1788 and the politics of the public sphere in eighteenth-Century Prussia, Leiden, Boston, Brill, 2009; Christina Stange-Fayos, Stratégies discursives des intellectuels germanophones de la fin du 18e siècle dans le débat politico-religieux, in Intellectuels et polémiques: dans l’espace germanophone, a cura di Valérie Robert, Paris, Presses Sorbonne Nouvelle, 2003, pp. 301-310, http://books.openedition.org/psn/3063. Per un inquadramento più ampio, v. Francesca Di Donato, Comunicare la cultura. Il dibattito sulla repubblica delle lettere nell’illuminismo tedesco, «Bollettino telematico di filosofia politica», 2011, pp. 1-18, https://archiviomarini.sp.unipi.it/384/1/comunicare_la_cultura.pdf.↩︎
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Nel 1778, Zedlitz aveva scritto a Kant che «uno solo per poche ore al giorno è giudice, avvocato, predicatore, medico, e in così tante è un uomo e ha bisogno di altre scienze» (AA, X, p. 236, https://korpora.zim.uni-duisburg-essen.de/Kant/aa10/236.html). V. Karl Vorländer, Immanuel Kant. Der Mann und das Werk, 1924, https://www.textlog.de/35658.html.↩︎
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Ministerialerlaß des Geistlichen Departements an das kurmärkische Ober-Consistorium. Berlin 1783 Dezember 12, riprodotto in Gisbert Beyerhaus, Kants Programm der Aufklärung aus dem Jahre 1784, «Kant-Studien», 26, 1-2/1921, pp. 1-16: 15 e sg., https://zenodo.org/record/1521626/files/article.pdf. Su Schulz, v. Michael J. Sauter, Preaching, a Ponytail, and an Enthusiast: Rethinking the Public Sphere’s Subversiveness in Eighteenth-Century Prussia, «Central European History», 37, 4/2004, pp. 544-567, https://www.jstor.org/stable/4547468.↩︎
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AA, VIII, p. 36; WIA, p. 54.↩︎
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AA, VIII, pp. 37 e sg.; WIA, pp. 55 e sg.↩︎
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AA, VIII, pp. 38; WIA, p. 56. Rivolgersi «in qualità di studioso» – scrive Kant – «ad un pubblico in senso proprio» equivale a riconoscersi «anche come membro di un corpo comune, anzi persino della società cosmopolitica». Cfr. John Christian Laursen, Publicity and cosmopolitanism in late eighteenth-century Germany, «History of European Ideas», 16, 1–3/1993, pp. 117-122, https://www.academia.edu/911451/Publicity_and_Cosmopolitanism_In_Late_Elghteenth_Century_Germany.↩︎
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AA, VIII, p. 37; WIA, p. 55.↩︎
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V. Eckhart Hellmuth, Enlightenment and Freedom of the Press, cit.↩︎
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Hans Erich Bödeker, Aufklärung als Kommunikationsprozeß, «Aufklärung», 2, 2/1987, pp. 89-111, https://www.jstor.org/stable/24361077.↩︎
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AA, VIII, p. 41; WIA, pp. 58 e sg. Sul tema della libertà politica, quale diritto dei governati al controllo sull’attività governativa, v. Hans Erich Bodeker, The Concept of the Republic in Eighteenth-Century German Thought, in Republicanism and liberalism in America and the German states, 1750-1850, a cura di James A. Henretta, Jürgen Heideking, Cambridge; New York, Cambridge University Press, 2002, pp. 35-52,
https://archive.org/details/republicanismlib0000unse/page/36/mode/2up. Cfr. anche Claudio Cesa, Libertà e libertà politica nella filosofia classica tedesca, in Idem, Verso l’eticità. Saggi di storia della filosofia, a cura di Carla De Pascale, Luca Fonnesu e Alessandro Savorelli, Pisa, Scuola Normale Superiore Pisa, 2013, pp. 93-112.↩︎
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AA, VIII, pp. 39 e sg.; WIA, p. 57: «Ora, quello che neppure un popolo può decidere circa se stesso, lo può ancora meno un monarca circa il popolo; infatti la sua autorità legislativa si fonda precisamente sul fatto che riunisce nella sua la volontà generale del popolo». V. Nico De Federicis, Gli imperativi del diritto pubblico: Rousseau, Kant e i diritti dell’uomo, Pisa, Plus-Pisa university press, 2005, http://archiviomarini.sp.unipi.it/386/1/defedericis.pdf.↩︎
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AA, VIII, pp. 41 e sg.; WIA, p. 59.↩︎
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Cfr. August Ludwig Schlözer. il quale, chiosando la tesi secondo cui «Uno stato libero è una società i cui affari ogni membro è autorizzato a conoscere e giudicare», scriveva: «Di conseguenza, la libertà di stampa rende la monarchia assoluta uno stato libero. Di conseguenza, la coercizione della stampa rende ogni cosiddetto stato libero un dispotismo formale» (Aus Holland, in Stats-Anzeigen, 7, 1785, pp. 77-78 in n., https://archive.org/details/statsanzeigen00schlgoog/page/n81/mode/2up).↩︎
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Jean Louis De Lolme, Die Staatsverfassung von England oder Nachricht von der englischen Regierung, worinn sie mit der republikanischen Form und gelegentlich mit den andern Monarchien in Europa verglichen wird, Leipzig, Junius, 1776, https://www.digitale-sammlungen.de/en/view/bsb10451989. L’anonimo traduttore, in una nota, si dichiarava contrario, a differenza di De Lolme, a una libertà di stampa illimitata, quale quella inglese, che si prestava ad abusi (ivi, pp. 292 e sg. in n.). Difficile, tuttavia, dire se si trattasse, da parte del traduttore, di una mera osservazione di circostanza, adattata al contesto politico tedesco: quale esempio di uso onorevole e misurato della libertà di stampa, il traduttore citava infatti nientemeno che Junius!↩︎
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«Ephemeriden der Menschheit oder Bibliothek der Sittenlehre, der Politik und der Gesetzgebung, 8, 1777, pp. 200-202, http://ds.ub.uni-bielefeld.de/viewer/image/2091681_017/89/LOG_0014.↩︎
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AA, VIII, pp. 36, 41; WIA, pp. 55, 58 e sg. (corsivi miei). Cfr. Christian Laursen, Censorship from Rulers, Censorship from Book Piracy: The Strategies of Immanuel Kant, in Censorship Moments: Reading Texts in the History of Censorship and Freedom of Expression, a cura di Geoff Kemp, London, Bloomsbury Academic, 2015, pp. 103-108, http://dx.doi.org/10.5040/9781472593078.ch-014.↩︎
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AA, VIII, p. 41; WIA, p. 59. Sull’idea che un sovrano dotato di un esercito permanente possa per ciò consentire la libertà della stampa, avendo i mezzi per proteggersi dagli eventuali effetti avversi dell’esercizio di questa, v. John Christian Laursen e Johan van der Zande, nell’Introduzione a Carl Friedrich Bahrdt’s On Freedom Of The Press And Its Limits, cit., p. 100; John Christian Laursen, Spinoza on Toleration: Arming the State and Reining In the Magistrate, in Difference and Dissent: Theories of Toleration in Medieval and Early Modern Europe, a cura di Cary J. Nederman, John Christian Laursen, Lanham, Rowman & Littlefield, 1996, pp. 185-204.↩︎
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Su questo tema, sul quale non posso soffermami qui, e sulla traiettoria complessiva della posizione kantiana, è imprescindibile Sergio Landucci, L’ultimo Kant: la svolta del 1791, «Rivista di filosofia», 108, 3/2017, pp. 281-308.↩︎
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AA, X, pp. 453-457.↩︎
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Immanuel Kant, Was heisst: Sich im Denken orientieren?, in AA, VIII, pp. 131-147: 144; trad. it. Che cosa significa orientarsi nel pensare, a cura di Giuseppe De Flaviis in Immanuel Kant, Scritti sul criticismo, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 14-29:27.↩︎
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Edict, die Religions-Verfassung in der preussischen Staaten betreffend. De dato Potsdam, den 9. Julii 1788, https://digital.slub-dresden.de/werkansicht/dlf/6560/1 All’editto di religione fece seguito, com’è noto, un editto di censura: Erneuertes Censur-Edict für die preussischen Staaten exclusive Schlesien, https://digital.slub-dresden.de/werkansicht/dlf/67917/1. Sul rapporto tra lo Stato e le chiese in Kant, v., di chi scrive, Religione e diritti civili: la questione ebraica in Kant, in «Studi kantiani», 21, 2008, pp. 33-58, https://zenodo.org/record/5656765; Stato e Chiesa in Kant, in «Filosofia politica», 24, 2010, p. 197-219, https://zenodo.org/record/4568869.↩︎
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Condivido la tesi di Sergio Landucci, L’ultimo Kant: la svolta del 1791, cit.↩︎
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Immanuel Kant, Über das Mißlingen aller philosophischen Versuche in der Theodicee, in AA, VIII, pp. 253-271: 255, 269; trad. it. Sul fallimento di tutti i tentativi filosofici in teodicea, in Scritti sul criticismo, cit., pp. 129-148: 131, 146.↩︎
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Benedetto Spinoza, Trattato teologico-politico, trad. it. cit., pp. 485 e sgg.↩︎
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Immanuel Kant, Sul fallimento di tutti i tentativi filosofici in teodicea, cit., in AA, VIII, p. 269, trad. it. cit., p. 146.↩︎
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Cfr. Denis Diderot: «Imponetemi il silenzio sulla religione e il governo, e non avrò più nulla da dire» (La Promenade du sceptique ou Les Allées (1747), in Oeuvres complètes de Diderot, Paris, Garnier frères, 1875, vol. 1, p. 184, https://archive.org/details/oeuvrescomplte0102dide/page/n257/mode/2up). V. Franco Venturi, Utopia e riforma nell’Illuminismo, Torino, Einaudi, 1970, p. 2.↩︎
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Il termine «giacobino» era allora inteso in Germania come sinonimo di «democratico» e veniva impiegato quale appellativo ingiurioso contro chiunque si dichiarasse in favore dei princìpi della rivoluzione francese – come faceva Kant in pubblico e in privato – e dovesse dunque essere considerato un oppositore del regime. V. ad es. Was ist ein Jakobiner?, in «Fliegende Blätter, dem französischen Krieg und dem Revolutionswesen unserer Zeiten gewidmet», 50, 1794, p. 1029, https://archive.org/details/bub_gb_FsRGAAAAcAAJ/page/n179/mode/2up: «è giacobino chi ripone la sovranità nella volontà popolare e si adopera a trasformare secondo questa massima l’ordine politico esistente»; Heinrich Würzer, in «Der Patriotische Volksredner», 1, 1796, p. 85: https://babel.hathitrust.org/cgi/pt?id=hvd.32044098611544&view=1up&seq=97: «in Germania tutti coloro che si dichiaravano in favore dei prìncipi della rivoluzione francese venivano chiamati democratici […] gli appellativi di giacobino e democratico sono diventati da noi parole equivalenti e nomi ingiuriosi che vengono dati a tutti coloro che fanno derivare dal popolo l’origine della sovranità e affermano la legittimità e necessità di riforme politiche» (entrambi citati in Nicolao Merker, Alle origini dell’ideologia tedesca, Bari, Laterza, 1977, pp. 3 e sg.).↩︎
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V. Karl Vorländer, Kants Stellung zur französischen Revolution, in Philosophische Abhandlungen, Hermann Cohen zum 70sten Geburtstag (4 Juli 1912), Berlin, Cassirer, 1912, pp. 247-269, https://archive.org/details/vorlanderkantfranzrevolution; Manfred Kuehn, Kant. Una biografia, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 497 e sgg.↩︎
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Immanuel Kant, Die Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft in AA, VI, p. 8; trad. it. La religione nei limiti della semplice ragione (d’ora in poi, Religione), a cura di Pietro Chiodi, in Immanuel Kant, Scritti morali, Torino, UTET, 1970, pp. 317-534: 329.↩︎
-
AA, VI, p. 133 in n.; Religione, pp. 462 e sg. in n.↩︎
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AA, VI, p. 188 in n.; Religione, pp. 518 e sg. in n.↩︎
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L’espressione «libertà della penna» era correntemente utilizzata, in un’epoca in cui la «libertà di stampa» era talora riferita, in un senso concreto e ristretto, alla sola attività degli stampatori. V. Franz Schneider, Presse, Pressfreiheit, Zensur, cit., p. 900.↩︎
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Immanuel Kant, Über den Gemeinspruch: Das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht für die Praxis, in AA, VIII, pp. 273-313: 304; trad. it. Sul detto comune: «questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica» (d’ora in poi, Sul detto comune), in Immanuel Kant, Sette scritti politici liberi, cit., pp. 91-124: 115 e sg., https://btfp.sp.unipi.it/dida/kant_7/ar01s08.xhtml#controhobbes.↩︎
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V. Hans Erich Bödeker, «Menschenrechte» im deutschen publizistischen Diskurs vor 1789, in Grund- und Freiheitsrechte von der ständischen zur spätburgerlichen Gesellschaft, a cura di Günter Birtsch, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht,1987, pp. 392-433.↩︎
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V., nella rivista «Der neue Teusche Merkur», diretta da Wieland, la dichiarazione che, «di tutti i libri inglesi che io abbia letto, nessuno mi ha mai interessato quanto le lettere di Junius» (London. Prozession in die S. Pauls Kirche. Reynolds Discourses. Junius letters, in «Der neue Teusche Merkur», 1/1798, pp. 86 e sg., https://www.digitale-sammlungen.de/de/view/bsb10614154?page=94,95).↩︎
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Christoph Martin Wieland, Vorbericht zum Anti-Cato, «Der Teutsche Merkur», 3, 1773, pp. 99-126:126, http://ds.ub.uni-bielefeld.de/viewer/image/1951387_003/128/; nel 1784, Wieland includeva nel «grande palladio dell’umanità» la libertà di rendere noto per mezzo della stampa ciò che si ritenga vero e utile alla società (Idem, An einen Freund, aus Veranlassung der Briefe über die Bibel im Völkerton, 46, 2/1784, pp. 246-263: 258 e sg., http://ds.ub.uni-bielefeld.de/viewer/image/1951387_046/310). Nel 1791, Karl Friedrich Reinhard scriveva, a proposito del Compte rendu di Necker (v. supra, n. 9): «Ciò di cui è capace l’opinione pubblica, e come essa sia il palladio del popolo, fu riconosciuto o insegnato per la prima volta da Necker» (Uebersicht einiger vorbereitenden Ursachen der französischen Staats-Veränderung, cit., p. 59).↩︎
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AA, VIII, p. 303; Sul detto comune, p. 115.↩︎
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Per la decifrazione delle ambiguità e della doppiezza della negazione kantiana del diritto di resistenza, volta senz’altro ad affermare l’irreversibilità della rivoluzione francese, rinvio al lavoro di Domenico Losurdo, Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant, Napoli, Bibliopolis, 1983.↩︎
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AA, VIII, p. 302; Sul detto comune, p. 114.↩︎
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Cfr. R. 1449: «Il dispotismo è una coazione per privare i sudditi di tutte le loro scelte e del loro giudizio», in AA, XV, Reflexionen zur Anthropologie, p. 633, https://korpora.zim.uni-duisburg-essen.de/kant/aa15/633.html.↩︎
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Sulla libertà di scrivere come contropotere si era espresso uno dei pubblicisti più noti dell’epoca, August Ludwig Schlözer, Briefe nach Eichstädt. Zur Vertheidigung der Publicität überhaupt und der Schlözerischen StatsAnzeigen insonderheit, Frankfurt und Eichstädt [Göttingen], 1785, pp. 56 e sg., https://gdz.sub.uni-goettingen.de/id/PPN835324745: «Molti potenti nel mondo, dentro e fuori la Germania, dentro e fuori la cristianità, su troni e pulpiti, in gabinetti e aule di tribunale, dietro muri e tende, praticano il dispotismo. Ora l’ABC del diritto costituzionale generale insegna che ogni potere, per essere tenuto a freno, deve avere un contropotere. […] Così, se il povero genere umano ha bisogno di un contropotere: penso che dovrebbe ritenere sempre che il potere degli scrittori sia il più tollerabile». V. Tomas Nicklas, Publizität als Machtfaktor: Schlözer und die Pressekampagnen der Spätaufklärung, in August Ludwig (von) Schlözer in Europa, a cura di Heinz Duchhardt, Martin Espenhorst, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2012, pp. 157-176, https://library.oapen.org/bitstream/handle/20.500.12657/48652/external_content.pdf.↩︎
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AA, VIII, p. 306; Sul detto comune, p. 118. Cfr. Giuliano Marini, La filosofia cosmopolitica di Kant, cit., https://archiviomarini.sp.unipi.it/101/1/La_filosofia_cosmopolitica_di__Kant.pdf, pp. 86 e sg.; Maria Chiara Pievatolo, Annotazione della curatrice, in Immanuel Kant, Sette scritti politici liberi, cit., pp. 142 e sgg.↩︎
An excellent analysis of the history of Kant’s ideas about freedom of the press – and, more importantly, about his use of rhetoric and carefully chosen vocabulary to get his message across despite the censors. We see where he fits in a century of claims about freedom of the press, and what he adds to them.