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Paola Galimberti, Italia e open science: le occasioni mancate

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DOI

Dicembre 2024
Come citare questo testo:

Galimberti, P., “Italia e open science: le occasioni mancate”, Bollettino telematico di filosofia politica, Dicembre 2024. https://commentbfp.sp.unipi.it/paola-galimberti-italia-e-open-science-le-occasioni-mancate/; DOI: 10.5281/zenodo.14505277.

Indice

Premessa
Le politiche nazionali
Le politiche istituzionali
La formazione/informazione come strumento per la normalizzazione della scienza aperta
Gli strumenti
Il diamond open access in Italia
Le risorse e i processi
La valutazione della ricerca
Conclusioni provvisorie

Premessa

La storia dell’Italia e dell’Open Science (per lo meno fino al momento in cui scriviamo) non è certamente una storia di consapevolezza e di crescita, né di visione, quanto piuttosto una storia di grandi potenzialità che poi non si sono sviluppate o non hanno trovato una realizzazione nella quotidianità dei ricercatori. Spesso l’avvento di certe politiche che pure potevano favorire l’Open science (come l’unione dei Consorzi Cineca, Cilea e Caspur) sembra aver prodotto effetti positivi ma casuali che quindi non sono stati portati avanti fino in fondo, e se c’era una visione questa è stata oscurata. Nel corso di questo breve intervento vedremo come nel nostro Paese si siano create le condizioni per politiche di sistema forti su open science e open access, e come però nel corso del tempo siano state affossate per incompetenza, disattenzione, dimenticanza o semplicemente perché non se ne è capita la portata.

Non dimentichiamoci che a 20 anni dalla Dichiarazione di Messina non ci sono dati del Ministero dell’Università né sulla spesa per la scienza aperta, né legati alle diverse forme di apertura (dati, pubblicazioni, software, codice).

Che l’Open science non sia una priorità in Italia è un dato di fatto, eppure il nostro Paese ne avrebbe estremo bisogno, sia a livello di formazione che a livello di implementazione di pratiche che permettano di contrastare la frode scientifica.

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Le politiche nazionali

Il 4 novembre 2024 si è celebrato a Messina il ventennale dalla Dichiarazione di Messina a supporto della Dichiarazione di Berlino.

20 anni fa a Messina gli Atenei italiani si incontravano e i Rettori, sotto la guida della CRUI, firmavano un impegno1 molto preciso a sostegno dell’accesso aperto alla letteratura scientifica finanziata con fondi pubblici. L’entusiasmo fu molto, ma forse i tempi non erano ancora abbastanza maturi, per cui a seguito di quell’impegno che prevedeva azioni molto precise da parte degli Atenei (ad esempio la definizione di politiche istituzionali rispetto all’accesso aperto che definissero chi, cosa , quando; la implementazione di strumenti a supporto e il loro monitoraggio; la formazione dei ricercatori), molto poco è avvenuto, e solo una manciata di Atenei ha portato avanti gli impegni presi con la firma della Dichiarazione.

Successivamente alla Dichiarazione, la Crui attraverso la commissione open access si è impegnata a definire una serie di linee guida che potessero essere adottate dagli atenei in modo da attivare, a livello nazionale, comportamenti simili e coerenti nelle diverse istituzioni2.

Nel 2013 viene approvata la legge sull’Open access3, una legge strana, perché non è stata promossa dal Ministero dell’Università (come sarebbe stato logico e opportuno), ma è un articolo annidato all’interno di una legge promossa dal Ministero per i Beni culturali, atta a valorizzare il patrimonio culturale nazionale. All’art 4 Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo delle biblioteche e degli archivi e per la promozione della recitazione e della lettura, troviamo (finalmente) un comma 2 che tratta dell’accesso aperto alle pubblicazioni finanziate con fondi pubblici. Nessuna verifica e nessun finanziamento vengono previsti per questa azione, nessuna sanzione per chi non la osservi. Il che fa sì che questa legge, ancorché citata in tutti i documenti successivi, resti lettera morta4.

A 10 anni dalla Dichiarazione di Messina, nel 2014, sempre a Messina, gli atenei italiani si sono nuovamente riuniti per rinnovare la loro adesione ai principi dell’open access e per definire una nuova roadmap (purtroppo per la stessa mancanza di dati sopra citata, senza fare una valutazione dei risultati derivati dalla roadmap precedente, che forse avrebbe potuto servire da monito rispetto alla definizione degli impegni futuri). E’ stato un incontro importante perché ha confermato l’impegno degli atenei italiani a lavorare su una visione condivisa e coordinata rispetto all’accesso aperto a supportare la green road attraverso i propri archivi istituzionali, e a collaborare per la definizione di una policy nazionale sui dati della ricerca. In questo secondo incontro scompare la sponsorship della CRUI presente solo attraverso il coordinatore della Commissione Open access (lo stesso da 20 anni ). 52 istituzioni firmano la roadmap.

Anche in questo caso la firma della Roadmap avrebbe dovuto/potuto portare ad una serie di azioni concrete, soprattutto per il fatto che nel frattempo l’Europa stava sviluppando le proprie politiche relative alla scienza aperta e molti Paesi si stavano allineando.

E’ a partire da questa seconda dichiarazione che si cominciano a definire fra le istituzioni significative differenze rispetto alla interpretazione e implementazione della road map.

Alcune istituzioni (anche in ragione della loro partecipazione a network e alleanze europee) cominciano a sviluppare autonomamente politiche specifiche sull’open access e sull’open science, a creare servizi e a erogare formazione, consapevoli della necessità dell’allineamento con il resto dell’Europa e del mondo, ma anche preoccupate della mancanza di allineamento fra queste e le politiche nazionali che paiono in questo momento inesistenti o molto deboli.

Qualche accenno all’open access si trova nei PRIN a partire dal 20175, ma a differenza della Commissione Europea che controlla capillarmente il rispetto delle regole per le pubblicazioni scientifiche, il Ministero italiano non effettua alcun controllo (almeno rispetto all’obbligo di pubblicazione ad accesso aperto dei risultati delle ricerche).

Bisognerà aspettare fino al 2022 (quando la Francia avrà già pubblicato il suo secondo piano nazionale sulla scienza aperta6) perché anche l’Italia abbia un proprio piano nazionale sulla scienza aperta7.

Anche questo documento poteva rappresentare l’occasione per la implementazione di politiche di sistema, ma purtroppo non prevedendo, come in altri Paesi, finanziamenti (si pensi all’Olanda8) o strumenti a supporto ( si pensi al repository nazionale francese HAL9) ha finito per essere un altro documento inapplicato e inefficace, oltre che datato già nel momento della pubblicazione.

Il ministero ha creato nel 2023 un gruppo per il monitoraggio dell’Open science, ma ancora una volta la assenza di fondi e soprattutto di risorse umane per la realizzazione della raccolta ed elaborazione dei dati fa pensare che non avremo nell’immediato futuro alcun tipo di dato sia sulle esperienze pregresse che previsionale.

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Le politiche istituzionali

L’altra occasione mancata è stata quella di non definire, a livello istituzionale, una politica di open access almeno green, che aiutasse i ricercatori ad acquisire consapevolezza rispetto all’uso dei propri diritti (anche se decisi unilateralmente dall’editore). A dire il vero le policy nascono e si comincia anche a raccoglierle, ma, come era stato per la adesione alla Dichiarazione di Berlino, anche in questo caso alla policy non fanno seguito risorse (umane ed economiche) che possano supportare i ricercatori, per cui riuscire a caricare il full-text del proprio lavoro è a proprio rischio e comunque, a meno che non sia nativamente open access, nel migliore dei casi e anche nella versione post o pre print resta chiuso. Anche a livello istituzionale dunque, come a livello nazionale si riscontra una mancanza di sensibilità rispetto ai temi dell’accesso aperto alla letteratura scientifica. Nessun riconoscimento viene dato a chi pratica l’accesso aperto, nessun finanziamento specifico.

Fra le politiche istituzionali portate avanti da università ed enti di ricerca c’è senza dubbio quella della sottoscrizione consortile dei contratti read and publish. Un modello che nasce per rispondere alla decisione di Coalition S di non finanziare più l’open access in riviste ibride a meno che non siano trasformative, cioè a meno che non siano all’interno di contratti che attraverso un pagamento supplementare per il publish trasformino lentamente le riviste in sedi editoriali open access per cui il modello di contratto dovrebbe diventare in un futuro non lontano pay per publish.

Si trattava di una idea interessante, soprattutto perché sembrava che in un arco di tempo limitato si sarebbe potuto raggiungere un open access diffuso per tutti.

Sappiamo ovviamente come sono andate le cose10.

Coalition S, pur riconoscendo che le politiche sui contratti trasformativi hanno favorito un aumento consistente del numero di pubblicazioni ad accesso aperto, ha deciso di chiudere la campagna di sostegno di questo modello, sulla base del fatto che la presunta, auspicata trasformazione non è avvenuta e quindi decade la finalità dei contratti trasformativi11.

Anche in questo caso in Italia mancano i dati. Dopo parecchi anni di contratti trasformativi non abbiamo idea di quanto si spenda a livello nazionale per questi contratti e ciò rende impossibile valutare le politiche messe in atto dalla CRUI che ha fatto dei contratti trasformativi il modello unico e ripetitivo di contrattazione. Non abbiamo ad oggi da parte di CRUI report e analisi dei costi benefici di queste misure (come fatto da JISC in UK12) e quindi il modello trasformativo si reitera e si moltiplica senza alcuna evidenza della sua efficacia.

Anche per quanto riguarda il GOLD (o l’ibrido fuori dai trasformativi) poche istituzioni italiane raccolgono e mettono a disposizione i propri dati (ad esempio attraverso il progetto Open APC13), o in relazioni annuali e report ad hoc, la maggior parte non mette dati a disposizione per evidenti difficoltà (o scarso interesse) a raccoglierli.

Una iniziativa dal basso è stata portata avanti da un gruppo di atenei che ha provato a darsi delle dimensioni su cui lavorare14, per monitorare i dati anche in termini comparativi, la iniziativa dovrebbe estendersi a un numero maggiore di atenei e potrebbe anche essere parzialmente automatizzata attraverso l’uso delle API di Open Alex.

Nel corso degli ultimi anni e su impulso degli enti finanziatori, molte istituzioni hanno pubblicato documenti a supporto dell’Open science: alcuni sono regolamenti, altre policy, alcuni riguardano solo le pubblicazioni o le tesi di dottorato, o i dati o il software, altre tutte queste tipologie15.

In alcuni atenei si sono costituiti gruppi di lavoro o Commissioni sull’open science (Milano, Bologna, Trento, Piemonte Orientale ecc.) in altri è stato anche nominato un delegato.

Perché questi gruppi di lavoro siano veramente operativi è importante che siano composti da personale tecnico e da ricercatori, che possano portare competenze e punti di vista diversi.

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La formazione/informazione come strumento per la normalizzazione della scienza aperta.

Un punto cruciale per la normalizzazione della scienza aperta è rappresentato dalla formazione di studenti, giovani ricercatori e professori universitari.

Sono pochi gli atenei che forniscono attività formative continuative sulle diverse dimensioni dell’open science, cosa che dipende anche dalle competenze presenti e dalla quantità di personale esperto dedicato a queste attività.

Ci sono parecchi programmi di formazione anche intensivi dedicati ad esempio agli studenti di dottorato, ma raramente questi sono accompagnati da strumenti e servizi strutturati, ne manca cioè la implementazione, così che finiscono per restare a livello molto teorico.

Strumenti di formazione e informazione di ottima qualità sono ormai presenti a vari livelli e disponibili in rete, ma spesso questo tipo di formazione non viene riconosciuta e considerata come rilevante all’interno dei cv.

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Gli strumenti

La fusione nel 2014 dei tre consorzi italiani (Cilea, Cineca e Caspur) ha condotto alla adozione da parte di tutte le università e gli enti consorziati, di un unico strumento per la gestione delle informazioni sui lavori di ricerca. Questo strumento ha preso il nome di IRIS e il suo scopo è quello di rappresentare attraverso metadati ma anche full text, la produzione scientifica dei ricercatori e delle istituzioni italiane. Praticamente tutte le università italiane (escluse poche eccezioni) hanno adottato questo strumento, basato su DSpace. Sarebbe stato ovvio e naturale dunque che si adottasse una cura particolare per i dati, soprattutto visto l’uso estensivo che il Ministero ne faceva per le proprie procedure (ad esempio ASN o Collegi di dottorato, o PRIN ecc.). Si sarebbe potuto pensare ad un modello come quello francese in cui si arrivasse ad una economia di scala soprattutto quando lo stesso dato era condiviso da più istituzioni, ma anche in questo caso non si è voluto fare il passo di costruire una anagrafe nazionale della ricerca (per altro legge dal 200916) che validasse i dati centralmente e a cui le diverse strutture decentrate potessero collegarsi.

E così gli IRIS italiani si sono ampliati nei contenuti, con diversi gradi di completezza, con diversi gradi di qualità dei dati, con diversi gradi di presenza (e di apertura) dei testi delle ricerche. Alcuni IRIS sono validati e controllati, altri beneficiano dei sistemi automatici di arricchimento dei metadati introdotti nel corso del tempo. Alcuni sono completi e rispecchiano davvero la produzione scientifica di una istituzione, altri sono lacunosi.

Nel corso del tempo la situazione è migliorata dal punto di vista dei metadati, mentre per quanto riguarda la presenza e apertura dei full-text c’è ancora molta resistenza non solo da parte dei ricercatori, ma anche da parte di chi gestisce gli archivi (probabilmente per mancanza di personale che effettui la validazione delle versioni caricate e delle condizioni di utilizzo).

E così quello che nella visione iniziale avrebbe potuto essere un grande progetto nazionale (a cui si è associata la acquisizione di un ORCID obbligatoria per ciascun ricercatore), si è trasformato in una situazione frammentata per pratiche, contenuti e regole.

Anche sui dati della ricerca manca in Italia uno strumento centralizzato e certificato che raccolga le diverse istanze locali, così come mancano politiche precise rispetto alla loro gestione e archiviazione.

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Il diamond open access in Italia

Una forma particolarmente virtuosa di open access è il diamond, che si basa su infrastrutture pubbliche gestite da enti pubblici che sostengono i costi e non hanno come finalità il profitto.

L’Italia presenta una vivace attività di pubblicazioni in diamond Open Access, sia a livello di riviste17 che a livello di University press: queste attività meritorie e di qualità dovrebbero essere prese seriamente in considerazione dal Ministero anche per finanziamenti ad hoc come avviene in molti altri paesi.

Molte di queste iniziative si basano sul volontariato di ricercatori che invece di lavorare gratis per gli editori commerciali hanno scelto di farlo a beneficio di tutti. Queste iniziative potrebbero avere problemi di sostenibilità nel lungo termine, per cui sarebbe importante assicurare loro il sostegno adeguato sia in termini di finanziamenti che in termine di infrastrutture anche per la conservazione18.

Oltre al problema della sostenibilità queste iniziative editoriali hanno anche un problema di credibilità nei confronti delle comunità scientifiche soprattutto di quelle brand addicted che tendono a privilegiare i loghi degli editori commerciali anche se la qualità garantita dalla editoria diamond è assolutamente comparabile e in alcuni casi superiore19 a quella della editoria commerciale.

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Le risorse e i processi

La normalizzazione della scienza aperta non può avvenire a costo zero. Occorrono competenze molto specifiche legate alla editoria scientifica nelle diverse aree, ai processi di valutazione, all’implementazione e gestione degli strumenti, ai diritti sia delle persone che quelli di proprietà intellettuale, alla research integrity e a come la si garantisce. Occorre anche saper monitorare i risultati e rendicontarli. Occorre un aggiornamento costante su modelli e processi che evolvono in maniera estremamente rapida. La presenza di personale dedicato, a cavallo fra ricerca e amministrazione, che supporti i ricercatori e li formi, è un punto imprescindibile perché una istituzione non rimanga indietro, ma visto lo stato dell’Open science in Italia, almeno da quel poco che emerge, tutto ciò non sembra essere un tema di interesse.

Sono poche le università che pubblicano una relazione annuale sull’open science, importantissima per poter prendere decisioni basate su evidenze.

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La valutazione della ricerca

Un paragrafo a se stante merita il tema della valutazione. A partire dalla Legge Gelmini l’Italia ha adottato convintamente un sistema di valutazione performance based, basato su indicatori quantitativi prodotti da soggetti commerciali e centralizzato, rispetto al quale non si è mai pensato di tornare indietro. Il sistema è gestito da Anvur e dal Ministero dell’Università, e nonostante alcune evidenze particolarmente significative (come l’aumento eccessivo delle autocitazioni), non è in sostanza cambiato dal 2012. Le mediane per poter accedere alla abilitazione scientifica nazionale si chiamano ora soglie, e sono sensibilmente aumentate a causa del ben noto fenomeno del publish or perish e della legge di Goodhart. Anche l’ultimo bando per la valutazione della qualità della ricerca (VQR 2020-202420) basata sulla peer review informata, non fornisce alcuna garanzia rispetto alla prevalenza (o unicità) della valutazione quantitativa che dovrebbe teoricamente servire solo da conferma o messa in discussione del risultato qualitativo.

La maggior parte degli Atenei e centri di ricerca italiani hanno sottoscritto COARA e si sono riuniti in un National chapter21impegnandosi ad identificare criteri simili e coerenti per le commissioni di concorso locali, che privilegino la qualità piuttosto che la quantità e in cui le pratiche di Open science trovino una collocazione e vengano riconosciute. Anche Anvur fa parte degli enti firmatari di COARA, ma dei tanti principi presenti nell’Agreement poco si vede nelle azioni per ora intraprese, Anche l’action plan pubblicato di recente sembra disattendere le premesse sottese alla firma dell’accordo22

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Conclusioni provvisorie

Quanto descritto fin qui rappresenta una situazione difforme e non sistemica per l’Italia.

Gli elementi di innovazione e i balzi in avanti dipendono dalla sensibilità delle singole istituzioni e non trovano alcun riconoscimento a livello di sistema.

La nostra ricerca è però inserita anche in un contesto internazionale dove le pratiche dell’open science sono tenute in considerazione e sono oggetto di valutazione.

L’open science è la modalità di pratica della scienza, ma i ricercatori devono esserne coscienti. Il lavoro da fare in termini di formazione è ancora moltissimo, e quindi l’esortazione alle istituzioni è quella di elaborare sistemi multidimensionali di formazione, in parte trasversali, in parte specifici.

La pratica della scienza aperta richiede tempo e competenze specifiche, scelte consapevoli e supporto adeguato. Se i ricercatori non riescono a vedere il vantaggio di questa gestione onerosa (ad esempio in termini di riconoscimento), se le istituzioni non mettono loro a disposizione competenze e strumenti, è difficile che ci si applichino e vi aderiscano.

Nel nostro Paese le molte premesse per uno sviluppo normalizzato della scienza aperta ci sono state e ci sono ancora. Si tratta solo di implementarle in maniera consapevole, e il National chapter di COARA potrebbe forse essere un primo passo.


  1. *Una versione in inglese di questo testo verrà pubblicata in: Current Trends in Open Science. Will Open Science change the world? Ledizioni, Milan 2025https://it.wikisource.org/wiki/Dichiarazione_di_Messina↩︎
  2. Si vedano le linee guida della CRUI, https://osa.crui.it/documenti/ ormai del tutto risalenti e riferite a un periodo molto diverso da quello attuale, mai più aggiornate, ma all’epoca molto utili ad esempio per lo sviluppo delle policy sull’accesso aperto alle tesi di dottorato.↩︎
  3. Decreto legge 8 agosto 2013 n. 91 “…disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali, con particolare riferimento alla necessità indifferibile di garantire misure immediate di tutela, restauro e valorizzazione del patrimonio culturale italiano …” https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legge:2013;91↩︎
  4. Si veda il Commento di Roberto Caso su ROARS La legge italiana sull’accesso aperto agli articoli scientifici: l’inizio di un percorso normativo https://www.roars.it/la-legge-italiana-sullaccesso-aperto-agli-articoli-scientifci-linizio-di-un-percorso-normativo/↩︎
  5. https://miur.gov.it/-/bando-prin-2017↩︎
  6. https://www.enseignementsup-recherche.gouv.fr/fr/le-plan-national-pour-la-science-ouverte-2021-2024-vers-une-generalisation-de-la-science-ouverte-en-48525↩︎
  7. https://www.mur.gov.it/it/news/lunedi-20062022/pubblicato-il-piano-nazionale-della-scienza-aperta↩︎
  8. https://www.openscience.nl/en/news/open-science-nl-presents-work-programme-for-2024-and-2025↩︎
  9. https://hal.science/↩︎
  10. The oligopoly’s shift to open access: How the big five academic publishers profit from article processing charges https://doi.org/10.1162/qss_a_00272; The APC-barrier and its effect on stratification in open access publishing https://doi.org/10.1162/qss_a_00245; How open are hybrid journals included in transformative agreements? https://doi.org/10.48550/arXiv.2402.18255; Trapped in Transformative Agreements? A Multifaceted Analysis of > 1,000 Contracts https://doi.org/10.48550/arXiv.2409.20224; La Révolution Dévore ses Enfants: Pricing Implications of Transformative Agreements arXiv:2403.03597v2 ↩︎
  11. Transformative journals: analysis from the 2022 report https://www.coalition-s.org/blog/transformative-journals-analysis-from-the-2022-reports/↩︎
  12. https://zenodo.org/records/10882118↩︎
  13. https://treemaps.openapc.net/↩︎
  14. Schema di monitoraggio attività di open science https://zenodo.org/records/10389874↩︎
  15. Sul sito Open_science.it è disponibile un censimento delle politiche e dei regolamenti.↩︎
  16. https://www.anvur.it/wp-content/uploads/2012/03/delibera05_11.pdf↩︎
  17. Sono 462 le riviste italiane diamond indicizzate nella DOAJ https://tinyurl.com/2p8zecjs↩︎
  18. Un esempio meritorio è quello sudamericano con il progetto Scielo https://www.scielo.org/en/↩︎
  19. Ovviamente ciò dipende molto dalle aree. Ci sono riviste ottime pubblicate da editori commerciali e riviste ottime pubblicate da iniziative no profit, ma le prime godono del favore dei ricercatori perché collegate ad indici indispensabili per la loro carriera solitamente più elevati.↩︎
  20. https://www.anvur.it/attivita/vqr/vqr-2020-2024/↩︎
  21. COARA national Chapter: Italia https://www.coara-italia.it/↩︎
  22. Di statistica e virtù: i criteri della VQR 2020-2024 e la riforma europea della valutazione della ricerca https://aisa.sp.unipi.it/language/it/↩︎
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Source: https://commentbfp.sp.unipi.it/paola-galimberti-italia-e-open-science-le-occasioni-mancate/