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Introduzione

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E. Salvatori, Il fegato del vescovo – Introduzione

1124, chiesa di S. Alessandro a Lucca, un sabato di metà ottobre. Entrano nell’edificio un gran numero di persone vestite al meglio, alcune indossano vesti o mostrano insegne indicative dei rispettivi ruoli: vescovo, console, giurista, marchese, notaio. Nell’area presbiterale si siedono probabilmente gli ospitanti lucchesi: sono oltre 60, tra cui i consoli, i notabili e i sapienti. Il loro compito sentire le ragioni delle parti in causa e poi decidere. Lungo le navate si dispongono invece, presumiamo su fronti opposti, da un lato gli uomini del vescovo di Luni e dall’altro due marchesi obertenghi – Guglielmo Francigena e Malaspina – con il portavoce e i loro sodali, rispettivamente 14 e 12 persone. Si discute animatamente su chi debba e possa incastellare il monte Caprione, un promontorio boscoso tra la foce del Magra e il Golfo oggi detto dei Poeti. In un contesto di alta tensione, il vescovo così apostrofa il marchese Guglielmo suo vassallo: “Se salirai col Malaspina su quel poggio per incastellarlo, sarà come se mi strappassi il fegato dal corpo!”1.

Ma cosa aveva offeso e ferito il vescovo di Luni in quell’autunno del 1124? Il palese tradimento di un uomo che gli aveva in passato giurato fedeltà o il vedere assediata da minacce esterne un’area che riteneva vitale per il suo potere temporale? Quali spazi, quali interessi stavano invece a cuore all’arbitro, il giovane comune di Lucca: il controllo sulla foce del Magra e sulle vie che da quella si diramavano in varie direzioni (prima fra tutte la Francigena) o il semplice mantenimento della pace il quel contesto? Quale era infine lo spazio cercato dai due marchesi, eredi di una casata un estremamente potente, con beni ingenti distribuiti in varie aree del nord Italia, ma ora separata in più rami? In che modo gli spazi oggetto della disputa erano percepiti agli attori in gioco in relazione all’estensione e alla natura dei rispettivi poteri? Il vescovo Andrea li vedeva certamente come carne della sua carne, organi vitali del suo dominio, ma entro una strategia di espansione che aveva il comitato come linea di demarcazione ideale o l’interesse era concentrato solo sul ganglio stradale e portuale della foce del Magra? A seconda dello spazio che si prende come riferimento, per tutti e per ciascuno dei protagonisti, la lettura di questo documento – come di molti altri relativi alla Lunigiana medievale e moderna – cambia e va ad alimentare anche visioni sulla storicità della Lunigiana che continuano a influenzare il presente.

L’arbitrato lucchese del 1124, uno dei documenti più intriganti della Lunigiana medievale, presenta infatti domande che toccano tematiche centrali nella storia di questa regione e che possono essere sintetizzate in una sola parola: “confini”. Confini nella e della Lunigiana, una regione storica difficile da disegnare su una mappa e che la letteratura vuole condannata dalla storia a un destino di eterna frammentazione, originata proprio nel medioevo e continuata fino ai nostri giorni. Confini di un castello o di un sistema di fortificazioni, spazi militari, ma anche amministrativi o religiosi, a loro volta intersecati da percorsi di culti, di usanze, di modi di abitare; confini del passato che sembrano lasciare pesanti eredità nel presente, confini presenti che imputano la loro esistenza a un passato tanto lontano e confuso quanto adatto a essere riconosciuto come originario di una fantomatica identità.

La vulgata vuole che proprio la mancata creazione di un unico confine in Lunigiana – anzi la moltiplicazione dei territori e degli spazi nel corso del tempo dal medioevo a oggi – sia all’origine del mancato “successo” della regione e della sua perenne marginalità economica, nonostante l’evidente posizione strategica dal punto di vista delle comunicazioni e degli scambi. Un assunto che è difficile contestare prima di tutto perché generico – quali confini? quando? con quali dinamiche? – e in secondo luogo perché chiuso esso stesso in un altro confine, quello della dimensione essenzialmente geopolitica della storia, in cui economia, società, forme di insediamento, costumi e pratiche religiose costituiscono elementi accessori della dimensione statuale, derivati e non caratterizzanti.

Il presente, da cui come sempre nasce l’indagine curiosa sul passato, oggi ci fornisce ben altre visioni e valori legati al concetto confine. Nel mondo globalizzato economicamente e culturalmente, i confini nazionali o federali sono percepiti sempre più obsoleti e ambigui, le strutture politiche e associazioni tradizionali appaiono sempre più deboli, altri nuclei di potere politico ed economico emergono polarizzando interessi a diversi livelli2. Stiamo assistendo a un mutamento epocale rispetto al mondo degli stati-nazione ereditato dall’età moderna e consumato dal fuoco del Novecento: un mondo che spesso ci lascia disorientati, ma in cui riusciamo a muoverci nella misura in cui riusciamo ad adattarci al mutamento, a capire la dissoluzione dei vecchi concetti di confine e la nascita di nuove frontiere, nella misura in cui siamo capaci di oltrepassare antiche barriere e comprendere i tentativi di costruzione di nuovi muri. Una delle strategie di uscita dallo spaesamento generato dalla globalizzazione vede la crescita di importanza di iniziative che si muovano nella dimensione “glocale”, quella che guarda alla società attraverso la comunità locale, che però è composta da individui che sono a loro volta allacciati a reti più ampie. Dal punto di vista storico questo significa indagare e valorizzare in maniera partecipata un particolare luogo (il comune o la zona) o le macroaree regionali o provinciali, dando importanza alle vicende dei singoli territori, alle memorie di comunità, ma inserendole al contempo in uno scenario più ampio e producendo esiti concreti e utili per le persone coinvolte3.

Il presente volume nasce da questa domanda profonda, intima quasi, sulla importanza non certo di disegnare confini antichi, ma di capire le dinamiche della loro costruzione e le spinte che hanno portato alla loro distruzione o attraversamento fino alla situazione presente. E si è venuto componendo nel tempo come naturale conseguenza di quanto studiato in questi ultimi anni, in un percorso di ricerca a dir poco irrispettoso dei confini disciplinari tradizionali, sempre teso a oltrepassare i limiti delle consuete metodologie di lavoro, a sperimentare nuovi strumenti e nuovi approcci.

Anche se la Lunigiana medievale è stata fin dall’inizio del mio percorso accademico uno degli oggetti di studio favoriti, i singoli affondi hanno però spesso proceduto con approcci sperimentali lontani dalle linee maggiormente battute dalla comunità nazionale dei medievisti e hanno quasi sempre comportato metodologie e attività inter- e transdisciplinari. All’origine di questa alterità, la formazione di partenza ibrida archeologica e storica che molto deve a Gabriella Rossetti, mi riferisco in particolare al corso di Insediamenti tardo antichi e medievali seguito negli anni ’80 quando ero studentessa all’Università di Pisa, nel cui ambito mi laureerai e che proseguì anche nel percorso dottorale presso l’Università degli Studi di Milano. Corso che ho in un certo senso ereditato, dato che ancora oggi mi vede impegnata nell’attività didattica universitaria. Nel tempo, tuttavia, questa linea di ricerca si è intersecata con interessi ancora più eccentrici rispetto alle principali correnti del settore disciplinare a cui formalmente appartengo (M-STO/01): mi riferisco in primo luogo all’impegno nel settore delle Digital Humanities e in secondo in quello della Public History. I metodi e gli strumenti della cultura digitale – appresi nella lunga militanza nel corso di laurea pisano di Informatica Umanistica e entro l’Associazione per l’informatica umanistica e la cultura digitale (AIUCD) hanno da un lato arricchito e dall’atro complicato a dismisura l’armamentario metodologico della ricerca, in particolare nell’ambito dei GIS, della codifica del testo e della esegesi delle fonti. Le pratiche di Public History – approfonditi nella collaborazione con l’Associazione Italiana di Public History (AIPH) hanno viceversa spalancato finestre di dubbi sul senso e l’utilità della ricerca stessa e mi hanno spinto a cercare vie nuove per una condivisione degli studi con i pubblici – le comunità – potenzialmente interessati.

In questo continuo attraversamento di confini disciplinari – che non costituisce di per sé un valore ma che è doveroso dichiarare per la comprensione di quanto si presenta -, lo studio del popolamento e del tessuto insediativo della Lunigiana medievale non è mai venuto meno, anzi si è mano a mano strutturato e arricchito con attività ricognitive sul campo attuate in collaborazione con archeologi e in stretto contatto con le comunità locali, ha portato a sperimentare rappresentazioni dinamiche di fenomeni storici che fossero contemporaneamente di utilità per la ricerca e per il territorio e a concludere infine una operazione editoriale considerevole per dimensioni e impegno: l’edizione digitale del Codice Pelavicino, il liber iurium della Chiesa di Luni4.

Più la ricerca sulla Lunigiana medievale procedeva, seppur dispersa nelle diverse sotto tematiche descritte, più emergeva però l’impossibilità di condurre in porto un discorso unitario sulla Lunigiana in sé. La regione storica, alla prova dei documenti, spesso sfuggiva, si frammentava e poi pareva ricompattarsi ma solo da alcuni punti di vista. Il fenomeno signorile, il dominio del vescovo di Luni, gli interessi malaspiniani, la fondazione ed evoluzione dei castelli, la struttura insediativa dei borghi non trovavano più nei confini tradizionalmente proposti dalla storiografia un quadro utile di riferimento, nemmeno se considerato per convenzione o comodità. Al contrario emergeva invece sempre più evidente la complessità dei piani, la difficoltà estrema di rappresentare i fenomeni entro la dimensione geografica e l’utilità di superare le convenzioni e le letture banalizzanti in funzione di un più efficace impatto della ricerca stessa sul territorio.

Da qui è nata l’idea di questo volume che, mettendo in discussione il concetto stesso di regione storica, tenta di individuare e di rappresentare le continue e complesse dinamiche di costruzione e superamento di confini all’interno di uno spazio che deve essere definito anche solo per poter essere smontato e distrutto, ma che tende anche immancabilmente a sfuggire5.

Se la Lunigiana è esistita in passato, come la si può definire e descrivere? Se esiste ancora oggi, dove e in cosa la si può riconoscere e come è percepita dai suoi abitanti? Se si guarda alle fonti dal medioevo a oggi la risposta è sì, è esistita ed esiste: il toponimo è attestato nei documenti dal medioevo in avanti, si ritrova ampiamente nei testi narrativi dal Trecento in poi, dal XVI anche nei titoli di opere erudite. Il termine cercato su Google restituisce oggi quasi tre milioni di risultati e qualche migliaio di mappe, ma le prime pagine del celeberrimo motore di ricerca – quelle che vengono veramente consultate – consegnano l’immagine di una Lunigiana fittizia, promossa a fini turistici, che si richiama a un medioevo lontano, suggestivo e in gran parte mitico. Ma cosa si intendeva per Lunigiana ai tempi di Federico Barbarossa, che investì il vescovo di Luni del comitato omonimo o di Federico II che, dimentico della strategia del nonno, vi creò una provincia? Dove si colloca la Lunigiana oggi e di quali contenuti si struttura? In quale misura i confini della Lunigiana storica sono frutto dell’accettazione più o meno passiva di una formulazione intellettuale esterna alla realtà culturale che si voleva così “delimitare”? Se prima di Federico II duriamo molta fatica a riconoscere la Lunigiana nelle fonti, l’attuale abbondanza di attestazioni sembra dovere molto a una passiva accettazione di un concetto adottato ed elaborato da una élite intellettuale, e da questa restituito al linguaggio comune trasformatosi nel Web nell’offerta di un panorama medievaleggiante.

Proprio la visione della complessità che ha caratterizzato la Lunigiana del passato e le reciproche interferenze tra visione popolare e costruzione erudita può aiutare a capire meglio – spero – le principali caratteristiche e problematiche del territorio attuale ed anche a suggerire decisioni, a proporre strategie, a contribuire a scelte future per la sua valorizzazione.

Il volume, composto da testi originali, si struttura in quattro sezioni: nella prima viene discussa l’invenzione della Lunigiana storica da parte della storiografia locale novecentesca; nella seconda, più corposa, i concetti e i fenomeni che hanno in passato riempito contenutisticamente la Lunigiana sono sottoposti a decostruzione per poi essere riesaminati e recuperati da punti di vista differenti anche tramite l’uso di GIS e di dati tabellari della ricerca lasciati in libero accesso su Zenodo in ottemperanza ai principi FAIR6; nella terza si affronta la questione della distruzione mitica della città romana di Luni e dei suoi effetti nella produzione storiografica e nell’immaginario collettivo. Infine, dedico l’ultima parte a illustrare un progetto recente di Digital Public History relativo sempre al tema in questione, la percezione della storia e i confini della Lunigiana nel presente.

In questo volume trovano quindi espressione unitaria tre passioni di ricerca: il medioevo, la cultura digitale e la predisposizione verso una una storia condivisa con e per i diversi pubblici. Sono amori che si sono influenzati a vicenda, ibridandosi, connettendosi, divertendosi a smantellare pervicacemente i muri di separazione tra le discipline. Se alcune volte l’ibridazione potrà suonare incompiuta, questo sarà unicamente imputabile al fatto che l’interdisciplinarità è un percorso a ostacoli, dove è molto facile cadere nelle trappole della semplificazione di temi su cui si è meno preparati e fornire un quadro frammentato ai lettori più esperti nei diversi settori. Spero di essere riuscita comunque a far emergere nei diversi capitoli il «filo rosso» della ricerca e contemporaneamente l’uso consapevole di metodologie attinenti al campo della storia digitale e della storia pubblica7.

Quando l’idea del volume è venuta a maturazione mi sono chiesta quale tipo di prodotto editoriale poteva rispecchiare con coerenza i percorsi di ricerca che vi venivano documentati e anche le scelte di campo che la Public History richiede. Da un lato la monografia rappresenta il prodotto d’eccellenza, come tale viene richiesto dalla valutazione del sistema accademico a cui appartengo; dall’altro volevo dare ai diversi pubblici potenzialmente interessati ai temi trattati la possibilità di interagire: correggere, commentare, aggiungere.

La scelta è stata quindi quella di produrre in prima istanza una una monografia digitale in revisione aperta (open peer review) che, solo dopo un determinato tempo capitalizzasse le osservazioni nella stesura definitiva con pubblicazione cartacea e digitale8. La monografia digitale è stata messa sul «Bollettino telematico di filosofia politica. Open peer review, put to the test» nell’ottobre 20239 ed è stata chiesta una sua revisione parziale o totale a Monica Baldassarri, Gianni Bergamaschi, Letizia Chiti, Fabio Dei, Gianluca Fulvetti, Laura Galoppini, Massimiliano Grava, Roberto Gronda, Stefano Manganaro, Luigi Marrai, Serge Noiret, Paolo Pontari, Olga Ricci, Giampaolo Salice, Nicoletta Salvatori, Andrea Tilatti, Alessandra Veronese, Eliana Vecchi. La revisione è stata comunque aperta anche al pubblico -che si doveva però prima accreditare – e diffusa tramite varie mailing list. La lista completa dei revisori sarà disponibile nell’edizione definitiva.

Questo volume presenta una riflessione complessiva su studi che si sono sviluppati in diversi anni e che mi hanno visto collaborare con numerosi esperti di varie discipline, a cui mi lega un rapporto di amicizia oltre che una grande stima verso le rispettive capacità e competenze. Ringrazio in particolare per la storia della regione Franco Bonatti, Mario Nobili, Paolo Pontari, Edilio Riccardini, Olga Ricci, Raffaele Savigni ed Eliana Vecchi; per la toponomastica Sergio Mussi; per l’antropologia Fabio Dei; per l’agiografia Gianni Bergamaschi; per la geomorfologia Marta Pappalardo; per ciò che attiene l’archeologia Monica Baldassarri, Letizia Chiti, Massimo Dadà, Francesca Lemmi e Luca Parodi; per i GIS Massimiliano Grava e Paolo Mogorovich; per le Digital Humanities in senso lato Federico Boschetti, Vittore Casarosa, Angelo Mario Del Grosso, Chiara Di Pietro, Marianna Giardina, Chiara Mannari, Roberto Rosselli Del Turco, Maria Chiar Pievatolo, Maria Simi, Simona Turbanti e tutti i numerosi laureandi di Informatica Umanistica, Storia e Archeologia che ho avuto la fortuna di seguire, oltre che gli amici e i colleghi dell’AIUCD; per la Public History eterna gratitudine va all’amico che mi ci ha trascinato, Serge Noiret, e a tutte le persone fantastiche che popolano l’AIPH. Un ringraziamento speciale, infine, a tutto il personale di archivi, biblioteche e musei che ho infastidito in questi anni e che mi auguro continuerò a importunare per lungo tempo.

Non ho possibilità di sapere se questo lavoro sarebbe piaciuto a Gabriella Rossetti, maestra incomparabile a cui sarò per sempre grata. Mi sono inizialmente mossa su percorsi da lei inaugurati, ma ho poi preso bivi che mi hanno portato lontano dai suoi lavori, sempre tuttavia spinta dal suo invito a ragionare fuori dagli schemi ma a fronte di un’esegesi rigorosa delle fonti. Attualmente la studiosa non può essere disturbata con richieste di consulenza o consigli.  Voglio però pensare che non le sarebbe dispiaciuto leggere e commentare questo mio lavoro, come usava fare con tutte le cose che scrivevo quando mi prese sotto la sua ala.

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