III – I confini del mito: la distruzione Luni e I Normanni e Dudone (1, 1.1, 1.2)
E. Salvatori, Il fegato del vescovo – III – I confini del mito: la distruzione Luni e I Normanni e Dudone (1, 1.1, 1.2)
Le rovine dell’antica colonia romana di Luni hanno, fin dall’età di mezzo, indotto i visitatori a domandarsi le ragioni del loro abbandono.La città che s’è n’è ita, simbolo in Dante della fatale transitorietà delle costruzioni umane, ha prodotto numerosi racconti relativi alla sua distruzione, per lo più immaginari, i primi databili appunto al medioevo. I più tenaci sono risultati i racconti sugli attacchi saraceni dell’849 e 1016 e normanno dell’858-60, che nel XVII secolo entrarono in vere e proprie trattazioni scientifiche, che a loro volta diedero struttura e dignità al mito della distruzione di Luni. Il successo dell’idea di una città morta perché in primo luogo violentemente distrutta – che oggi trova eco in numerose guidet uristiche, opuscoli divulgativi e siti web – si deve tuttavia alla storiografia locale otto e novecentesca, che ha preteso di rivedere scientificamente le ricostruzioni degli eruditi di età moderna, ma che in realtà è andata ad alimentare errori e fraintendimenti e a saldarsi con la necessità di riempire di senso un periodo della storia locale fatalmente povero di testimonianze. La popolarità del mito della distruzione di Luni si deve a diversi fattori, che qui sono analizzati in maniera sistematica e preceduti da una nuova esegesi delle fonti sui presunti attacchi, che consente di considerare plausibilmente avvenute solo due incursioni saracene e di respingere invece l’attendibilità di quella normanna.
III-1 I Normanni a Luni
Non esistono fonti primarie che ci attestino con sicurezza l’attacco normanno a Luni che, secondo fonti più tarde e largamente leggendarie, sarebbe avvenuto tra l’859 e l’861 ad opera di assalitori danesi. Primo narratore dell’evento è stato l’autore normanno Dudone di San Quintino, secondo il quale un tale Alstignus sarebbe riuscito ad espugnare Luni grazie ad uno stratagemma. Fingendosi gravemente malato, il capo vichingo avrebbe infatti chiesto al vescovo di Luni il battesimo cristiano. Simulando poi la morte, avrebbe ordinato ai suoi compagni di richiedere per lui la sepoltura in terra consacrata: sarebbe così riuscito a farsi ammettere entro le mura per la celebrazione delle esequie e avrebbe quindi conquistato la città dall’interno insieme ai suoi uomini, massacrando la popolazione e distruggendone le difese.
Dudone scrisse tuttavia circa due secoli dopo il presunto assalto ed è autore, come vedremo, non molto affidabile per quel che concerne la attendibilità dei fatti narrati. Questa debolezza della più antica attestazione, unita a un contenuto dai toni chiaramente romanzeschi, ha sempre suscitato forti perplessità e discussioni tra gli studiosi, che si sono sostanzialmente divisi tra chi sostiene la veridicità del fatto e chi invece lo etichetta come pura leggenda. Gli ultimi studi si attestano sulla posizione scettica1. Allo stato delle fonti, infatti, si può solo concordare che un attacco normanno a Luni nella seconda metà del IX secolo sia stato semplicemente possibile, dato che in quel periodo effettivamente un manipolo di guerrieri vichinghi attraversò lo stretto di Gibilterra e imperversò per qualche anno lungo le coste del Mediterraneo nord-occidentale. Tuttavia, è molto più probabile che Dudone abbia inventato del tutto l’episodio, attingendo a vari ingredienti dell’annalistica franca, della tradizione letteraria latina e orale normanna, e abbia “scelto” Luni perché città mediterranea nominata in uno specifico frangente nelle fonti che aveva la possibilità di consultare.
III-1.1 Le attestazioni coeve
Nel IX secolo i Normanni organizzarono nel Mare Nostrum almeno due spedizioni: la prima nell’844 e la seconda tra 858 e 862, ma è solo quest’ultima che pare raggiungesse le coste dell’alto Tirreno. Ce lo dicono in primo luogo gli Annales Bertiniani composti in parte da un autore anonimo (830-835) contemporaneo dell’imperatore Ludovico il Pio, a cui seguì Prudenzio di Troyes (835-861) e quindi da Incmaro di Reims (fino all’882)2. In particolare, è Prudenzio a inserire sotto l’anno 859 l’informazione relativa all’impresa mediterranea condotta da «pirati dei Danesi», che navigarono tra l’Africa e la Spagna, entrarono nel Rodano, assaltarono città e monasteri e si fermarono su un’isola alla Camargue.
Pyratae Danorum longo maris circuitu, inter Hispanias videlicet et Affricam navigantes, Rodanum ingrediuntur, depopulatisque quibusdam civitatibus ac monasteriis, in insula quae Camarias dicitur sed esponunt3.
L’anno successivo il manipolo devastò Valenza e, dopo aver depredato tutto ciò che si trovava nei dintorni, tornò nell’isola in cui aveva fatto base. Poco dopo assaltò Pisa e «altre città», devastandole.
Hi vero Dani qui in Rodano morabantur usque ad Valentiam civitatem vastando perveniunt. Unde, direptis quae circa erant omnibus, revertentes, ad insulam in qua sedes posuerant redeunt. [..] Dani qui in Rodano fuerant Italiam petunt et Pisas civitatem aliasque capiunt, depraedantur atque devastant4.
Il loro ritorno al nord pare verificarsi nell’862 – almeno secondo Incmaro di Reims – quando i Normanni provenienti dalla Spagna si riunirono con i conterranei respinti da Carlo il Semplice per dirigersi verso la Britannia5.
Che i Vichinghi si siano avventurati nel Mediterraneo alla metà del IX secolo ce lo confermano anche altre fonti latine contemporanee agli eventi, in particolare due cronache asturiane, la Cronaca di Alfonso III e la Cronaca d’Albelda6. Nella Cronaca di Alfonso III leggiamo che al tempo di Ordoño I re delle Asturie (830 – 866) i pirati normanni giunsero nei lidi asturiani e da lì via mare raggiunsero la Mauritania dove assaltarono Nekor7; quindi aggredirono e devastarono le Baleari e da qui si diressero verso la Grecia. Tornarono in patria dop otre anni.
Iterum Nordomani pirati de per his temporibis nostris litoribus pervenerunt; deinde in Spaniam omnem eius maritimam, gladio igneque praedando dissipaverunt. Exinde marim transiecto Nacchor civitatem Mauritaniae invaserunt, ibique multitudinem Chaldaeorum gladio interfecerunt. Deinde Maioricam et Minoricam insulas adgressi gladio depopulaverunt. Postea Graeciam advecti, post triennium in patriam sunt reversi8.
Ripete il dato in maniera leggermente diversa la Cronaca d’Albelda, che pone sempre al tempo del regno di Ordoño l’arrivo dei Normanni, sconfitti però in Galizia da un non meglio identificato conte Pietro.
Ordonius filius eius regnavit annis XVII. [..] Eius tempore Nordomani iterum venientes in Gallaeciae maritimis a Petro comite interfectisunt9.
Il Chronicon Iriense, scritto probabilmente a Santiago, ripete il dato in maniera molto più sintetica, ma inserendolo in un racconto che sembra risentire dell’influenza cluniacense e che quindi dovrebbe essere datato più tardi10: il vescovo Ataulfo II falsamente denunciato a Ordoño I di sodomia da quattro dei suoi servi viene sottoposto all’ordalia che dimostra la sua innocenza. A questo punto, evidente punizione divina per l’oltraggio, arrivano i Normanni:
Eo tempore C. naves Normanorum in Gallaeciam venerunt et post triennium ad propria sunt reversae11.
Altra menzione la troviamo in Ermentario di Noirmoutier monaco dell’abbazia di San Filiberto di Tournus, morto verso l’865 circa. Nel suo resoconto sulla traslazione delle reliquie di san Filiberto pone nell’857 l’avventura mediterranea dei Normanni:
Hispanias insuper adeunt, Rhodanum intrant fluvium, Italiam populantur. Dum vero tanta ubique domestica et peregrina desaeviunt bella, incarnationis Christi octingentesimus et quinquagesimus septimus defluxerat annus12.
Anche le fonti arabe menzionano l’impresa: ne troviamo la citazione nella compilazione Kitāb al-Muqtabis di Ibn Ḥayyān nell’XI secolo, che, come è noto, raccoglie una gran quantità di fonti anteriori. Nel secondo volume, che copre il periodo 796-880, riportando probabilmente un testo di Aḥmad al-Rāzī, si racconta che nell’anno 245 dell’Egira / 859 era cristiana i Normanni (Majūs13) attaccarono la costa occidentale di Al-Andalus con 62 navi, si spostarono quindi alla foce dei Guadalquivir, raggiunsero Siviglia eoccuparono Algeciras. Dopo aver diretto la loro attenzione anche alla sponda opposta dell’emirato, passarono l’inverno in Francia. In seguito a scontri con la flotta omayyade si diressero nuovamente nella terra dei Franchi, ma, insoddisfatti per le conquiste inferiori alle loro aspettative, si affrettarono a tornare in patria sconfitti.
Subirono un attacco navale provenendo da Algeciras che distrusse 14 delle loro navi. Furono portati fuori rotta dai confini di al-Andalus e spinti nella direzione della terra e dei Franchi. Non incontrarono alcun successo. Si affrettarono a tornare in patria sconfitti e non sono tornati fino ai giorni nostri14.
Non era la prima volta che i Normanni si avventuravano nel Mediterraneo percorrendo la via atlantica: nell’844 una prima spedizione li aveva visti prima imperversare nelle coste settentrionali delle Asturie e della Galizia, poi attaccare Lisbona e Siviglia, forse accampandosi per un breve periodo alle foci del Guadalquivir 15. Così un altro autore andaluso, Ibnal-Qutiya, vissuto nel X secolo, mette assieme le spedizioni del 844 e del 858, aggiungendo che i Vichinghi alla fine raggiunsero le terre dei Bizantini e Alessandria16.
Pur con comprensibili differenze dovute al retroterra culturale, agli interessi e agli scopi dei diversi cronisti, abbiamo un insieme cospicuo e sostanzialmente convergente di attestazioni relative all’itinerario seguito dai Normanni nel Mediterraneo nel sesto decennio del IX secolo: provenienti dall’attuale Francia occidentale costoro si diressero verso le coste galiziane, quindi raggiunsero al-Andalus colpendo in particolare Siviglia e Algeciras, oltre che insediamenti dell’Africa nord-occidentale. Facendo quindi base alla foce del Rodano, si spinsero verso oriente raggiungendo per taluni Pisa, per altri non meglio precisati domini bizantini. Benché Luni non sia menzionata in maniera diretta da nessuna di queste fonti, l’antica colonia romana “potrebbe” essere stata effettivamente toccata dalla spedizione, rientrando nelle «altre città» menzionate negli Annali Bertiniani.
III-1.2 Il racconto di Dudone
L’Historia Normannorum, nota anche come De moribus et actis primorum Normanniae ducum, di Dudone di San Quintino venne iniziata forse negli ultimi anni del X secolo e terminata probabilmente intorno al 101517. L’autore, vissuto a cavallo tra il X e l’XI secolo, era forse originario della regione del Vermandois in Normandia. Canonico, vicino alla corte del duca di Normandia Riccardo I (933-996) si accinse dietro sua richiesta a scrivere una storia dei primi duchi normanni, che completò sotto il ducato di Riccardo II, quando aveva ottenuto il titolo di decano18. Il testo è composto da sezioni alternate di prosa e di versi; dopo l’epistola apologetica all’arcivescovo Adalberone di Laon, seguono quattro libri: il primo, con un preambolo geografico ed etnologico sui paesi d’origine dei Normanni, è dedicato ad Alstignus / Hasting19 e contiene appunto l’episodio della presa di Luni; il secondo, molto più ampio rispetto a quello precedente, narra del duca Rollone (860-931 circa) e della nascita del ducato di Normandia; il terzo e il quarto hanno oggetto rispettivamente il duca Guglielmo Lungaspada (905 circa-942) e Riccardo I Senza Paura (933-996), contemporaneo dell’autore.
L’attendibilità del racconto di Dudone è assai controversa: molti studiosi sottolineano infatti il marcato stile romanzesco ed encomiastico, funzionale all’ottenimento del titolo di decano del capitolo di San Quintino, effettivamente ottenuto dopo il 101520. Secondo Henri Prentout la storia di Dudone è infatti una «histoire su commande», che risente delle esigenze politiche ideologiche della corte ducale di Rouen ove è statac omposta21. Secondo Jules Lair, Dudone non poté servirsi di fonti scritte locali, scarse o del tutto inesistenti nella Normandia dell’epoca; solo in un passo dedicato al duca Rollone si afferma infatti «Quid accidit inter Carolum et Robertum hic non memorabitur, quia alias legitur», ma non sappiamo a quale fonte Dudone potesse alludere. Sempre Lair ritiene che l’autore abbia probabilmente utilizzato narrazioni tramandate oralmente22. Di tutt’altro parere è invece Henri Prentout, secondo il quale il canonico attinse a fonti ben precise: per i fatti avvenuti sotto i regni di Rollone, di Guglielmo Lungaspada e di Riccardo I queste sarebbero gli Annali di Flodoardo; mentre per il periodo anteriore l’autore avrebbe attinto a diversi annali carolingi23. In realtà, come abbiamo già visto, per quanto attiene l’attacco a Luni, nulla troviamo nel racconto di Dudone degli Annali Bertiniani, che riportano la spedizione di generici pirati dei Danesi oltre lo stretto di Gibilterra.L’attribuzione ad Alstignus della presa di Luni e tutto l’articolato racconto del suo inganno compaiono infatti per la prima volta solo in Dudone, non si trovano menzionati, nemmeno parzialmente, in alcun’altra opera anteriore o contemporanea.
Vediamo quindi il suo racconto, commentandolo per passi significativi.
Dopo aver convocato tutti per valutare il da farsi, il pessimo Hasting annuncia di voler andare a Roma per sottometterla come la Francia. La proposta piace e i predatori, alzate le vele, si allontanano dai lidi francesi. Dopo essersi avventurati in mari lontani e aver rivendicato per sé terre e coste, volendo raggiungere segretamente Roma, si avvicinano alla città che chiamano Luni.
Omnibus igitur accersitis super suo negotio quid agerent consulturis, omnium Alstignus unus pro omnibus inquit nequissimus: «Optatae nobis crebrescunt aurae, facilesque nobis viam spirant venti secundi. Si vobis non displicet, Romam eamus, eamque sicuti Franciam nostro dominatui subjugemus». Hoc consilium complacuit omnibus, velisque erectis a praedatoribus, torquent proras Francicis a littoribus. Altis namque longe lateque fluctibus tactis, terrisque eis citraque littora sibi vindicatis, Romam, dominam gentium, volentes clam adipisci, Lunx urbem, quae Luna dicitur, navigio sunt congressi24.
Non vi riconosciamo praticamente nulla di quanto riportato dagli Annali Bertiniani, a meno di non dare particolare enfasi a quei praedatoribus e al riferimento al periglioso viaggio marittimo, come eco molto lontana dei Pyratae Danorum longo maris circuitu. Novità assoluta invece è l’emergere di Alstignus, in un brano precedente detto capo dei Normanni chiamati Daci, perché originari della Dacia.
Igitur Daci nuncupantur a suis Danai, vel Dani, glorianturque se ex Antenore progenitos; qui quae Trojae fuerunt depopulatis, mediis elapsus Achivis, Illyricos fines penetravit cum suis. Hi namque Daci relato ritu olim a suis expulsi, qua suos tractus Francia protense expargit, cum duce Anstigno ferociter sunt appulsi25.
In passato si è generalmente ritenuto che l’identificazione dei Dani con i Daci fosse dovuta alle confuse conoscenze geografiche di Dudone; in realtà gli studi recenti hanno dimostrato che l’autore disponeva di coordinate geografiche idonee a non fargli confondere la sede storica dei Dani (lo Jutland) con la Dacia nell’Europa centrale. L’autore avrebbe quindi volontariamente operato una sorta di collage basato sulle fonti libresche che aveva a disposizione (Iordanes, Marziano, Capella, Orosio e Cosmographia Aethici), teso a screditare la denominazione corrente di Dani riqualificandola con la forma Daci. Il suo intento sarebbe stato quello di costruire un parallelo tra Daci / Dani e Geti / Goti, popolo quest’ultimo molto più noto agli storici, e infine di proporre per i Daci / Dani una prestigiosa ascendenza troiana, il tutto al fine di restituire ai Normanni un’origine adeguata alle esigenze politiche dei duchi committenti dell’opera26.
All’interno di questa costruzione fortemente interessata, il primo capo normanno Alstignus / Hasting non è riconducibile a una precisa figura storica, sia perché Dudone trascura completamente la cronologia degli avvenimenti che l’avrebbero visto protagonista, siap erché è complicato riconoscere con certezza le varianti dell’antroponimo latino nelle antiche lingue norrena (Hasteinn, Hallsteinn), francese (Haustuin) e inglese (Hæsten); infine perché più di un personaggio così nominato è attestato nelle saghe nordiche e in altre fonti più tarde di attendibilità storica controversa. Prentout, ad esempio, ha tradotto Alstignus con il nome islandese Hallsteinn, individuandolo nell’omonimo norvegese figlio di Atle che la saga Landnámabók (prima versione scritta nel 1275-1280) narra cacciato dalla sua terra dal re Harald Harfagr. Gustav Storm ha invece puntato il dito sull’eroe danese Hadingus narrato da Saxo Grammaticus nelle sue Gesta Danorum, ma l’ipotesi è stata convincentemente contestata da Georges Dumezil27. Notiamo infine che Alstignus / Hasting non figura tra i partecipanti all’impresa dell’859-862 né nelle fonti franche, né in quelle iberiche, né in quelle arabe, e – come vedremo – non si trova nemmeno nelle saghe norrene, dove l’invasione normanna nel Mediterraneo è attribuita ai figli di Ragnar Loðbrók. In sostanza, allo stato attuale, sulla figura storica di Alstignus, possiamo solo dire che il suo nome di radice vandalica significava “guerriero dai capelli lunghi” ed era forse originario di una regione vicina a Olso28.
Molto di più è invece possibile dire sul personaggio letterario che Dudone descrive: Hasting è perfido, blasfemo, crudele, sacrilego, simbolo di tutti i pirati nordici, responsabile di ogni maleficio, crimine e distruzione commessi dai Vichinghi. Nella sua assoluta malvagità Hasting gioca tuttavia per Dudone un ruolo chiave per la salvezza dell’umanità, in quanto inviato per volontà divina, parte del piano della Provvidenza, giunto non per sterminare i Cristiani, ma per correggerli29. Ed è questo personaggio immaginario, ma portatore di senso, che organizza l’inganno contro la città di Luni.
Continuiamo quindi nel racconto. All’arrivo dei Daci i capi di Luni moltiplicano le difese cittadine e per conseguenza il blasfemo Hasting concepisce il suo inganno: manda un nunzio al conte e al vescovo della città facendogli raccontare di essere il capo di Daci espulsi dalla madrepatria, che hanno vagato per molto tempo, combattuto ferocemente molte battaglie contro le genti francesi e sottomesso tutte le loro terre. Pur desiderando tornare in patria i Daci sono stati sospinti a Luni dai venti avversi: non hanno alcuna intenzione di recare danni né alla città né ai suoi abitanti, ma sono pronti a mettersi al loro servizio, e supplicano una tregua per potersi riposare e rifornire del necessario. Hasting dichiara inoltre di essere molto malato e di ambire al sacramento del battesimo, in modo da poter essere sepolto in città se dovesse nel mentre sopravvenire la morte.
Principes igitur civitatis, formidoloso tantorum Impetu exterriti, munierunt urbem quampluribus armigeris. Decernens ergo Alstignus blasphemus ab omnibus non posse civitatem capi armis, dolosum reperit consilium nefandissimae fraudis. Misit itaque nuntium ad comitem civitatis et ad episcopum, subsequentia verba illis dicturum; qui, conspectui illorum assistens, talia coram profudit dicens: «Alstignus, dux Dacorum, vobis fidele servitium et omnes pariter sui, sorte Dacia cum ipso ejecti. Non vobis incognitum quod sorte Dacia expulsi, per flucti vagum pelagus circum omnia maria, turbine mirabilium maris elationum traducti, Francigenae gentis regnum sumus advecti. Hoc quoque regnum nobis sorte deorum concessum invasimus, multumque praeliis contragentes Francigenas obnixe certavimus, totumque regionis locum illius nostri senioris imperio prostravimus. Verum, omnibus nostris ditionibus subjugatis, reverti volentes ad terram nostrae nativitatis, prius aquilonibus adversis, postea Zephyro Nothoque nobis contrariis obtriti, finibus inviti vix adnatavimus vestris. Vestram urbem nec ferro depopulari, nec praedas venimus pagi vestri ad naves nostras deducere. Non nobis ea vis tot periculis fatigatis. Sequestram nobis pacem, precamur, date; quae necessaria sunt liceat emere. Noster senior infirmatus, multisque doloribus plenus, vult a vobis fonte salutifero redimi, christianumque sese fieri: et si morte hac in infirmitate praeoccupatus fuerit, vult vestra misericordia vestraque pietate hac in civitate sepeliri»30.
Il vescovo e il conte di Luni, fiduciosi e resi quasi ciechi dalla cupidigia, gli concedono quanto chiede. Dopo il battesimo, Hasting ordina ai suoi uomini di annunciare la sua morte e di chiedere las epoltura entro le mura, accompagnando la richiesta con doni preziosi, che vengono accettati.
Hoc audientes praesul et comes responderunt inter nuntio dicentes:«Perpetui foederis pactum vobiscum agimus, vestrumque seniorem christianum facimus. Quaecumque vultis emere, mutua voluntate nostrorum vestrorumque concedimus». Internuntius autem quaeque fraudulenter illis dixit, et quaecunque ab eis dolosus audivit, nefandissimo omnium seniori suo renuntiavit. Data igitur sequestra pace, multisque competentiis, multis coemptionibus atque mutuis conventionibus coutuntur perfidi pagani vicissim et christiani.
Interim praeparatur ab episcopo balneum, perfido non profuturum. Sanctificantur aquae, putei gurgite exhaustae. Illuminantur cerei ad sacrum mysterium lavacri. Advehitur praestigiator Alstignus, dolosi consilii repertor malevolus. Intrat perfidus fontes, corpus tantum diluentes. Suscipit nefarius baptismum, ad animae suae interitum. Suscipitur de sacrosancto baptismate ab episcopo et comite. Deducitur quasi infirmus, sacro chrismate oleoque delibutus. Non aegrotus, sed aeger, negotio perfidiae miser, deportatur quasi infirmus ad navis contubernium, corpore dealbatus tantum. Convocat igitur illic omnium nequissimos, super sua fraudulenta dolositate consulturos. Pandit illis secretum exsecrabile, quod conceperat furioso corde: «Imminente nocte, me mortuum nuntiate praesuli et comiti, et deposcite, nimium flentes, ut faciant me neophytum sua urbe sepeliri. Enses et armillas, et quidquid est mei juris, dicite vos daturos illis. Illi autem, ut jussum fuerat, ante dominos civitatis venientes, dixerunt ejulantes: «Noster senior vesterque filiolus, proh dolor! est defunctus. Precamur miseri ut in vestro monasterio sepeliri eum faciatis, et munera quae vobis moriens jussit permaxima dari, recipiatis». Illi namque tali sophismate decepti, dandis et accipiendis muneribus quasi excaecati, spoponderunt corpus recipi et in monasterio decenter humari. Inter nuntii autem regressire nuntiaverunt quae fraudulenter impetraverant funesti31.
Quindi Hasting organizza il suo funerale, con i suoi uomini che lo piangono con alti lamenti e dove lui stesso, ancora vivo, viene adagiato nel feretro sopra le armi e portato in processione al monastero dove è stata preparata la tomba.
Tunc contumax pestifer, gaudens super responsis eorum, uniuscujusque tribus mandat accersiri praecipuum. Congregatis autem omnibus, nequissimorum nequior dixit Alstignus: «Mihi modo facite feretrum, et superponite me quasi mortuum, arma quidem mecum in ipso collocate, eivos in gyrum circa ipsa flebiliter state; vos per plateas ululate, vestrosque me cogite plangere. Tumultu et vox vestra per cuncta nostra tentoria. Concrepet vox qui praesunt navibus cum ceteris cohortibus. Armillas et balteos ferri ante feretrum facite. Gemmis auroque politas secures ensesque exponite».
Fit dicto citius quod mandavat funestus. Auditur clamor ululantium, tumultusque lugentium. Resonant montes pro vocibus dolose moerentium tinnientes. Convocat praesul campanis gentem diffusam per totam civitatem. Venit clerus monasticis vestimentis indutus. Similiter principes illius urbis, martyrio coronandi. Affluit femineus sexus in exsilium deducendus. Pergunt unanimes contra monstrum feretro impositum. Bajulant scolastici candelabra et cruces, majoribus praecedentes. Advehitur a paganis Alstignus, vivus super feretrum positus; atque inexitu civitatis obviant christiani paganis. Ab utroque populo comportatur ad monasterium, quo sepulcrum cujus erat paratum. Praeparat se episcopus, missam pro suo filiolo celebraturus. Choro stat et clerus, officiosissime cantare suetus. Ignorant trucidandi christiani dolum mortiferae fraudis. Decantatur missa, solemniter celebrata. Participant omnes christiani mystico sacrificio Jesu Christi32.
Finite le celebrazioni i Daci si oppongono alla sepoltura creando tumulto: nel disordine che sorge improvviso Hasting sfodera la spada, uccide il vescovo e quanti si trovavano entro la chiesa, chiusa dall’esterno dai suoi sodali, i quali, a loro volta, fanno strage degli abitanti.
His missarum solemniis decenter expletis, paulatimque paganis congregatis, jussit praesul corpus ad sepulturam deferri. Pagani cum magno clamore petebant feretrum, et dicebant alternatim non eum sepeliendum. Stabant igitur christiani super responsis eorum stupefacti. Tunc Alstignus feretro desiluit, ensemque fulgentem vagina deripuit. Invasit funestus praesulem, librum manu tenentem. Jugulat praesulem, prostrato et comite, stantemque clerum in ecclesia inermem. Obstruxerunt pagani ostia templi, ne posset ullus elabi. Tunc paganorum rabies trucidat christianos inermes. Traduntur omnes neci, quos furor reperit hostis. Saeviunt infra delubri septa, ut lupi infra ovium caulas. Corde premunt gemitum mulieres, lacrymasque effundunt inanes. Juvenes cum virginibus loris concatenantur simul. Ultima vitae dies accidit omnibus, breveque et irrecuperabile vitae tempus. Prosternunt, per moenia urbis praeliantes, quoscunque reperiunt robustiores. Atteruntur cives, saeviente marte dolentes. Gens quae praeerat navibus adest, portis bipatentibus. Stat mucrone corusco ferri acies, strictim parata neci.Jungunt se praeliantibus, hinc inde certantes altrinsecus. Crudeliter perimunt omnes quos reperiunt armis obstantes33.
Solo dopo la sanguinosa conquista Hasting viene informato del fatto che la città dove si trova non è Roma e, accecato dall’ira, ne ordina la distruzione. I suoi uomini rapinano e devastano il territorio, caricando di bottino le navi, che poi prendono mare dirigendosi verso la Francia.
Tandem finitur duellum, eheu! perempto coetu christianorum. Caetera namque manus flebilis ducitur navibus. Conquiescit furentis Alstigni rabies, prostratos urbis propter principes. Gloriabatur Alstignus cum suis, ratus se cepisse Romam, caput mundi. Gratulatur tenere se monarchiam totius imperii, per urbem quam putabat Romam quae est gentium dominatrix. Hanc non esse Romam postquam didicit, commotus ira sic inquit: «Praedamini omnem provinciam, et incendite urbem istam. Captivos et spolia conducite ad naves quamplurima. Sentiant coloni istius terraenos in finibus illorum versasse». Quod mandat teter gaudet parare minister. Omnis provincia invaditur, hosteque nequissimo superatur. Strages quamplurima efficitur, captivi ad naves ducuntur. Gladio et incendio devastant omnia quae fuerant illis in praesentia. Onerant naves, his expletis, captivis et spoliis. Jam vertunt proras ad Francigenae gentis regnum ducendas. Permeant mare Mediterraneum, revertentes ad Franciae regnum34.
Il passo del De moribus dedicato alla vicenda di Luni è, come si vede molto ampio, ricco di dettagli, denso di passaggi drammatici, ma altrettanto povero di agganci storici, privo cioè di coordinate cronologiche, antroponimi e toponimi. Per questa e altre ragioni la maggior parre degli studiosi concorda nel relegare il racconto della conquista e distruzione di Luni nel regno dell’immaginario letterario. Già Henri Prentout ricordava che l’espediente del finto funerale utilizzato dal capo normanno per impadronirsi della città è presente in altri testi, quale stratagemma leggendario che si trasmette facilmente di autore in autore. Guglielmo di Puglia, ad esempio, quando nel II libro delle sue Gesta narra le vicende di Roberto il Guiscardo dal 1048 alla sua ascesa come duca (1059), racconta di come conquistò un monastero facendosi deporre in una bara, le armi poste sotto il presunto cadavere, il volto ricoperto di cera e avvolto in un panno secondo gli usi funebri normanni. Dopo aver fatto portare il feretro sulla soglia del monastero per essere lavato, seguì il suo “risveglio” e l’attacco35.
Non pare che Guglielmo di Puglia conoscesse già il testo di Dudone<ahref=”#fn36″ class=”footnote-ref simple-footnote” id=”fnref36″role=”doc-noteref”>36. Lo conosceva invece certamente Sassone il Grammatico (Saxo Grammaticus) che compose leGesta Danorum tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo<ahref=”#fn37″ class=”footnote-ref simple-footnote” id=”fnref37″role=”doc-noteref”>37 e che riutilizza lo stratagemma perben due volte quando ricorda la conquista di Paltisca e di Londra da parte di re Frodo I di Danimarca38. Si deve notare tuttavia che Saxo, pur conoscendo Dudone, non ne recepì il racconto relativo a Luni, dato che accenna molto brevemente alla presenza dei Danesi nel Mediterraneo, guidati per altro da Ragnar Loðbrók<ahref=”#fn39″ class=”footnote-ref simple-footnote” id=”fnref39″role=”doc-noteref”>39.
L’inganno del funerale lo troviamo anche nella saga di Harald Hardråde, re di Norvegia dal 1047 al 1066, riportata da Snorri Sturluson nella Heimskringla. Mentre è alle prese con una fortezza particolarmente imponente e difficile conquistare, Harald si ammala davvero e mette la sua tenda a qualche distanza dall’accampamento. Gli assediati vedono così l’andirivieni di persone al suo capezzale e mandano spie per scoprire la gravità della sua condizione. Alla fine, Harald diventa così debole che la sua morte viene annunciata e chiesta la sepoltura entro la fortezza. In questo caso sono i cittadini e i loro sacerdoti che fanno letteralmente a gara per avere il corpo, pensando alle ricche donazioni che questo avrebbe comportato. Viene così preparato il funerale e la bara trasportata entro le mura, fino al segnale di guerra e alla conseguente strage40.
A prescindere dallo stratagemma della finta morte, che i più ascrivono a pura invenzione letteraria, molti studiosi di Dudone hanno messo in dubbio la storicità della stessa conquista di Luni, che, come già notato, non è riportata da altre fonti anteriori. La stessa figura di Hasting, come abbiamo visto, non è riconducibile con sicurezza a un personaggio specifico, non nominato dalle fonti anteriori e nemmeno dalle saghe norrene, dove la spedizione normanna nel Mediterraneo è attribuita ai figli di Ragnar Loðbrók41. Presumendo – come il contesto effettivamente induce a pensare – che l’intera vicenda sia stata inventata da Dudone, ci si deve ovviamente chiedere cosa abbia indotto l’autore a individuare proprio in Luni la meta della bramosia vichinga. Un’ipotesi più che ragionevole è stata già fatta da Henri Prentout, secondo il quale l’autore ha intenzionalmente attribuito ai Normanni un’impresa che in realtà era stata effettuata dai Saraceni e che aveva potuto leggere nei già citati AnnaliBertiniani42. Qui infatti, all’anno 849, Prudenzio annota una serie di notizie relative a invasioni e attacchi: Carlo nipote di Ludovico il Pio cerca di togliere il regno d’Aquitania a Carlo il Calvo; i Normanni devastano e incendiano Périgueux, tornando poi impunemente alle loro navi; Mori e Saraceni conquistano Luni e, senza incontrare alcun ostacolo, devastano tutto fino alla Provenza.
Karolus Aquitaniam adgreditur. Nomenoius Britto consueta perfidia Andegavis et vicina eis circumquaque loca invadit. Nordmanni Petrocorium Aquitaniae civitatem populantes incendunt atque inpune ad naves remeant. Mauri et Saraceni Lunam Italiae civitatem adpredantes, nullo obsistente maritima omnia usque ad Provinciam devastant43.
Si tratterà più oltre degli attacchi a Luni di matrice islamica. Qui basti notare che effettivamente il brano accosta, anche se non collega,attacchi normanni e saraceni, quest’ultimi spintisi fino a spazi di pertinenza carolingia. L’episodio potrebbe aver facilmente fornito spunto alla fantasia creativa del canonico normanno, che avrebbe così collocato la sua storia fantastica in un luogo della penisola posto in direzione di Roma (la vera meta dei Normanni) e proprio per questo già noto a viandanti e pellegrini44.
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