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III.3 – Nascita e consolidamento del mito e 3.1 Santi in fuga e 3.2 Morta Luni, viva la Lunigiana!

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E. Salvatori, Il fegato del vescovo – III.3 – Nascita e consolidamento del mito e 3.1 Santi in fuga e 3.2 Morta Luni, viva la Lunigiana!

La teoria della distruzione e crisi di Luni, causata o con-causata dalla violenza di forze esterne in una riviera tirrenica alto medievale non sufficientemente tutelata dalle autorità politiche, si rivela quindi chiaramente un mito. Mito nato nel XVII secolo, ma fortemente rilanciato e sostenuto dalla storiografia locale più recente, in stretta relazione con quanto si veniva scrivendo su quella nazionale tra Otto e Novecento.

Si deve infatti a Ippolito Landinelli – come già annunciato – la prima vera trattazione scientifica sulla problematica della distruzione / decadenza di Luni da antica città a landa desolata segnata da rovine romane, sostituita come capoluogo della bassa Lunigiana dal borgo di Sarzana. Il canonico sarzanese, nipote dell’erudito cinquecentesco Agostino Bernucci, si ripromise all’inizio del XVII secolo di «vedere e sapere tutto quello, che possibil fosse della verità», perché aveva trovato il lavoro del nonno pieno di «opinioni erronee»1. Come sostiene Federico Frasson, le opinioni che intendeva correggere erano principalmente quelle ispirate dall’opera del celebre falsario Annio da Viterbo, che nelle sue Antiquitates aveva attribuito al dio Giano, identificato con il patriarca Noè, la fondazione di dodici città etrusche, tra cui Luni2. Da questo punto di partenza Landinelli procedette tuttavia a costruire una trattazione ampia su «tutte le altre cose notabili pertinenti a detta città (Sarzana), et a tutta la Provincia di Lunigiana», in primo luogo l’origine di Luni «e il suo disfacimento». Il manoscritto, giunto a noi in copie non autografe, è articolato in due trattati e in varie dissertazioni. Quella dedicata alla destruzione di Luni è inassoluto la più lunga, si dipana per quattro capitoli (5-8) e contiene numerose citazioni e analisi tese a esaminare quali ipotesi sulla distruzione «accettar si devono e quali ributtare» tra «la prima da Hercole, le seconda nella guerra sociale poco innanzi alle guerre civili tra Pompeo e Cesare, la terza al tempo di primi imperadori romani, quarta e quinta da Goti e Vandali, sesta e settima da Normanni e Saraceni, ottava dalla corruzione dell’aere»3.

Tutte le cause suddette sono analizzate con rigore scientifico, commisurato ovviamente alle conoscenze del periodo e a gli studi che il canonico poteva consultare: quelle anteriori alle incursioni normanne e saracene sono quasi tutte rigettate sulla base della comprovata esistenza della città di Luni in epoca posteriore a quella dei presunti eventi distruttivi, «per il che da tanti esempi, et argomenti addotti, per dir così, irrefragabili, si può risolutamente affermare che questa nostra città in tutti questi tempi, che habbiamo detto era in essere»; fa eccezione solo la favola della moglie adultera, che l’erudito rigetta giustamente come «ridicola senza fondamento alcuno ragionevole et autorità»4. Considera invece più che ragionevoli le ultime due, i Normanni (i Saraceni sono posti da Landinelli sempre in secondo piano) e l’insalubrità dell’aria, per i riscontri dati dalle fonti e per l’effetto ancora visibile nel territorio. Delle due è la prima, tuttavia, che lo studioso si sforza di dimostrare, perché la ritiene giustamente raccontata con toni tanto favolosi da sembrare falsi.  I capitoli 7 e 8 sono quindi dedicati all’analisi serrata di tutte le fonti a lui note relative soprattutto all’attacco normanno, partendo – come abbiamo visto – dal racconto di Albert Krantz. Le conclusioni della disamina sono chiare: sono stati gli attacchi Normanni e Saraceni a colpire la città in modo tale da non renderla più in grado di sostenere la crisi dovuta al cambiamento delle condizioni ambientali, condizioni che non hanno fondamento documentario, ma sono semplicemente riconosciute da Landinelli nella sua contemporaneità.

Come già accennato si mosse nella medesima direzione di Landinelli anche Bonaventura de’ Rossi che, nella sua Collectanea, anch’essa restata allo stato di manoscritto, cercò tracciare un’approfondita storia della Lunigiana e di Sarzana. All’interno di una strutturazione dell’opera non proprio equilibrata5, alla distruzione di Luni è dedicato un ampio spazio nel primo libro, dopo le sezioni sulla Luni romana, sul diffondersi del cristianesimo e sulla casata Malaspina. De’ Rossi riprende le cause elencate e già discusse da Landinelli, sottolineando tuttavia con maggior forza il periodo delle incursioni saracene e ungare:

Poiché per molti esempi si prova, che regnando i Gothi, Vandali e Longobardi, che a costoro successero, siasi la città di Luni conservata, o almeno non tanto distrutta, che che non abbia dopo facilmente potuto ristorarsi o ricuperare le pristine forze, quantonque queste tre fiere nazioni, di lì a pochi anni li Saraceni et Ongari ultimo esizio della povera Italia facessero tali e così frequenti invasioni in questa Provincia, che gran tempo disabitata ne rimanesse6.

In seguito, ribadisce l’opinione già di Landinelli sul rilievo avuto per le sorti della città dall’attacco normanno:

[..] per dimostrarli l’opinione del paese nostro, che questa rovina sia proceduta primieramente da questa nazione [i Normanni], secondariamente da corsari saraceni dell’Affrica, e poi dalla corruzione dell’aere cagionata dalla scarsità degli abitatori, come in progresso s’anderà dimostrando7.

Come già segnalato, de’ Rossi dà piena autorità alla lettera del 1034 di Guidone da Bibola riportata dal figlio Luigino, posta a prova della storia normanna prima narrata dal Kranzt e poi “confortata” da tutta una serie di testimonianze elencate senza ordine cronologico o d’autorità: Dudone di San Quintino, Guglielmo di Jumenges, Ugo di Fleury, Croncaca Turonense, Codice Pelavicino, facendole seguire da altre meno credibili, che l’autore si sforza di contestare pur mantenendo salda l’opinione di fondo. Segue poi una parte più sintetica dedicata alle incursioni saracene, alla questione delle inondazioni e dell’insalubrità dell’aria, in cui l’autore elenca le numerose testimonianze che vedono Luni esistere ancora nel pieno e tardo medioevo, progressivamente abbandonata per ragioni più ambientali ed economiche. La conclusione è sorprendentemente vicina all’ipotesi attuale, che disegna appunto per Luni una decadenza progressiva e non lineare:

[..] dell’opinione della di lei distruzione o incendio, senzadisa provare affatto quelle che vengono attribuite a Normani e Saraceni, le più vere a mio mio giudizio e più universalmente ricevute dagli uomini di questo paese per li riscontri che se ne hanno e per lo effetto che se ne vede, oppure a Castruccio, o popoli circonvicini genovesi o lucchesi, la più sicura finalmente deve stimarsi quella cagionatale da proprii suoi cittadini per la corruzione e pestilenza dell’ari8.

Nonostante queste ultime righe, che potremmo definire ragionevoli, il peso complessivo assegnato da de’ Rossi alle incursioni Normanne e Saracene sul destino di Luni è stato tale da occultare di fatto il buonsenso della sua stessa conclusione. Emerge infatti anche in altre parti della Collectanea, ad esempio quando ragiona sulla posizione reale del porto di Luni o quando parla dello spostamento di reliquie, un tema che fu in seguito particolarmente sottolineato e riutilizzato dalla storiografia locale otto- e novecentesca9.

Landinelli e de’ Rossi, sebbene mai giunti a stampa, fecero scuola evennero ripresi da numerosi storici locali, fino a una loro rilettura più ordinata e critica operata da Giovanni Sforza nel 1922, La distruzione di Luni nella storia e nella leggenda10. L’opera si presenta sostanzialmente come una raccolta ordinata di leggende sulla distruzione di Luni, suddivise in quattro tipologie: la vicenda della moglie adultera, i Normanni da fonti reperite in Italia, dalle saghe islandesi e dalle fonti normanne. All’antologia fa seguito un capitolo in cui l’autore analizza – come già Landinelli e de’ Rossi -tutte le passate teorie su distruzioni avvenute in età antica e tardoantica, per poi dedicare un intero capitolo ai Normanni, con la finale concessione di autorevolezza a Dudone di San Quintino; tace invece del tutto sugli attacchi Saraceni. Sforza, in sostanza, pur indubbiamente trattando la materia in maniera molto più rigorosa dei predecessori, si limita in buona parte a costruire una ricca antologia ordinata di fonti, che in parte considera leggendarie e in parte autorevoli, senza prendere tuttavia una posizione chiara sul declino della antica colonia romana. La sua opinione, infatti, si ricava solo tra le righe dell’appendice, in cui si elencano i documenti «ne’ quali vien ricordata la città di Luni dal 1033 al 1617» e da cui si deduce l’opinione di un lento declino11. L’effetto complessivo – nonostante l’etichetta di leggenda attribuita a buona parte delle fonti – è quindi quello di un rafforzamento della “distruzione normanna” come concausa di rilievo, in qualche modo accelerante e forse anche nobilitante una lunga e poco edificante decadenza.

Questo rilievo trovò eco e contemporaneamente anche utili riscontri nella storiografia nazionale ed europea dei secoli XIX e XX secolo, che guardava al periodo di passaggio tra la fine dell’alto medioevo e l’inizio della ripresa economica e demografica del secolo XI. Le sintesi più autorevoli, infatti, abbandonarono progressivamente la vecchia motivazione del superamento della “paura dell’anno Mille”, per puntare l’attenzione sul venir meno delle minacce esterne, la fine delle ultime incursioni barbariche. In sostanza, per gli studiosi dell’epoca, la rinascita dell’XI secolo non sarebbe stata determinata dal passaggio del millennio e dal conseguente tramonto della paura della fine del mondo, quanto invece dall’eliminazione delle minacce esterne e dal recupero di una sicurezza sufficiente a far rifiorire l’economia12. Secondo Aldo Settia i due conflitti mondiali, con le loro efferatezze, rafforzarono questa convinzione in molti storici, che furono portati spontaneamente a dare un rilievo eccessivo alle invasioni e alle violenze interne del cosiddetto “secolo di ferro”, quali condizioni scatenanti la corsa alle fortificazioni, specchio della frammentazione politica e volano di ulteriore insicurezza. In questa visione la ripresa sarebbe quindi stata consentita solo al raggiungimento di un certo grado di pace e sicurezza13.

Attualmente la visione condivisa dalla comunità scientifica è distante da questa lettura che comunque ancora circolava alla metà del secolo scorso14: la così detta rinascita del secolo XI è stata infatti riesaminata nella sua complessità15 e, in particolare per quanto riguarda il fenomeno dell’incastellamento e della ripresa del popolamento e dei commerci, anche anticipata. In questo quadro rivisto, le scorrerie ungare, le incursioni normanne e gli attacchi saraceni che si registrano tra IX e X secolo sono stati oggi «liberati dai fantasmi delle esperienze recenti» e quindi ricondotti ai loro specifici contesti, con il conseguente ridimensionamento delle rispettive conseguenze16. In estrema sintesi la comunità scientifica dei medievisti oggi non imputa più al clima di violenza dei secoli IX e X la causa primaria del fenomeno strutturale dell’incastellamento o della inferiorità economia dell’Europa nello scacchiere mediterraneo altomedievale; tuttavia questo mutamento profondo della storiografia europea e nazionale non è riuscito a penetrare più di tanto nella produzione storiografica lunigianese, che -nonostante i doverosi distinguo – è rimasta sostanzialmente legata al racconto delle distruzioni normanne e saracene.

III-3.1 Santi in fuga

Troviamo infatti numerose e diffuse nelle opere storiche relative alla Lunigiana tra XIX e XX secolo le asserzioni apodittiche su quanto ruolo abbiano avuto tali eventi sul destino di Luni.

Per Giovanni Callegari, autore nel 1866 di una Memoria storicaper la diocesi di Luni-Sarzana «con la decadenza dell’impero romano decadde pure questa città e soggiacque ad indicibili sciagure primamente per parte dei Longobardi [..]; indi e ripetute volte per opera dei Normanni e dei Saraceni in modo speciale nei secoli IX e X e nel 1016, di modo che dopo questa devastazione più non si riebbe, nontanto per le incursioni barbariche, quanto principalmente per l’aria malsana che si formò nelle sue adiacenze a motivo dei ristagni d’acqua»17. Per Pietro Ferrari, noto storico pontremolese della prima metà del XX secolo, «è certo che incursioni di Saraceni si ebbero anche nell’interno del territorio lunigianese con provenienza forse oltre che dal mare da altri centri dell’appennino ligure. Anzi che stanziamenti saraceni abbiano avuto luogo non solo sulla costa ma altresì nelle alte valli del nostro Appennino risulta anche dalle stesse fonti storiche relative alla Lunigiana per quanto esse siano oltremodo povere frammentarie per quanto si possa ritenere che neppure di tutte le incursioni dei saraceni a Luni e delle loro gesta nel territorio lunense la storia ci abbia conservato il ricordo»18. Gli attacchi che il Ferrari è in grado di citare sono esattamente quelli fino ad ora esaminati e quindisolo tre: il presunto – e ora sappiamo probabilmente mai avvenuto – attacco normanno e le due incursioni saracene avvenute a distanza di 167 anni l’una dall’altra. Tuttavia, questo non lo trattiene dall’affermare che «presidi o nuclei saraceni abbiano preso stanza per qualche tempo non solo sulla costa e nei luoghi principali, ma anche nelle valli, sui gioghi del nostro Appennino, lungo le vie e presso i valichi più importanti occupandovi località dominanti e punti strategici», da dove continuare a terrorizzare le popolazioni locali. Probabile, secondo Ferrari, che «gruppi isolati di Saraceni tagliati fuori nell’interno del territorio dopo la loro definitiva cacciata sopra ricordata o prima siano rimasti nel paese ritirandosi nei monti rifugiandosi negli antichi castellari come i luoghi particolarmente sicuri nelle frequenti grotte naturali delle nostre montagne». La traccia di questi stanziamenti islamici nell’Appennino emiliano si riconoscerebbe nella toponomastica: Castel di Sarasin sopra Pracchiola presso il valico del Cirone,Ca’ di Sarasin e Tecia di Sarasin al passo del Bratello19.

Si tratta chiaramente di ipotesi prive di fondamento, spiegabili conla semplice l’italianizzazione erudita di termini dialettali locali, come ad esempio sèrsàin, (dal lat. circĭnus, it.circolare), o seragia (ciliegia) o sarcina (balla, fascina) o semplicemente pensando al riferimento al nome / soprannome del proprietario di età moderna20. Tuttavia, queste palesi esagerazioni sono la traccia evidente di quanto il racconto della minaccia saraceno-normanna si sia allargato nella storiografia locale e sia andato a spiegare tutta una serie di fenomeni correlati, adatti a riempire di contenuti un alto medioevo lunigianese disperatamente povero di fonti e di conseguenza anche idoneo a ospitare contenuti immaginari. Recepita nella voce Luni dell’Enciclopedia Treccani del 1934, curata da Arturo Solari e Ubaldo Formentini, più di recente sintetizzato nella voce Luni di Adolfo Cecilia nella Enciclopedia Dantesca del 197021, la doppia minaccia vichinga eislamica divenne in innumerevoli scritti la causa scatenante di una serie di conseguenze nefaste che, in unione con l’interramento del portodi Luni, la mancanza di un centro urbano forte, la frammentarietà politica andò a determinare il destino di emarginazione economica della Lunigiana nel tempo.

Uno degli ambiti in cui gli studiosi hanno ricorso abbondantemente alle incursioni saracene e normanne per raccontare l’alto medioevo lunigianese è quello dei martiri e delle traslazioni dei santi,ricostruiti sulla base di fonti agiografiche spesso non correttamente contestualizzate. Basti a farne degna introduzione quanto scrive Pier Maria Conti nel 1967: «Tra la fine del secolo IX e l’inizio del X le spoglie dei vescovi di Luni furono dalle basiliche suburbane lunensi traslate in altre chiese più lontane dal mare e di conseguenza meno esposte alle profanazioni e cioè in San Venanzio di Ceparana e in San Pietro dell’Avenza; in quell’occasione i resti di Terenzio furono trasferiti nella chiesa a lui dedicata in Val di Bardine [..]. Nelle medesime circostanze anche il corpo del vescovo Sicherardo fu trasferito in una chiesa a lui dedicata sulle colline a levante di Luni»22. I santi a cui si riferisce Contisono Venanzio, Ceccardo / Sicherardo e Terenzio, come si intuisce accomunati dall’essere stati, in vita o defunti, minacciati dall’insicurezza altomedievale dei lidi23.

Per fortuna le ricerche recenti hanno ormai abbastanza chiarito l’inconsistenza storica delle singole leggende, che tuttavia continuano in parte a trovare eco in pubblicazioni recenti24.L’intitolazione dell’abbazia di Ceparana a S. Venanzio, lungi dall’esser motivata per aver dato rifugio alle spoglie dell’omonimo vescovo di Luni del VI secolo (594-603), sembra plausibilmente sorgere da un culto sviluppatesi agli inizi del XII secolo su iniziativa dei vescovi di Luni25. Il vescovo martire Ceccardo, che la tradizione vuole ucciso nell’attacco normanno del IX secolo e sepolto a Carrara nella chiesa di Sant’Andrea, non è mai attestato dalle fonti: secondo Conti sarebbe identificabile con un Sicherardus clericus presente a un atto dell’816, ma questa convinzione non beneficia di alcun’altra pezza d’appoggio26; l’iscrizione che ne ricorda il martirio nel 600 (sic) entro il duomo di Carrara è di epoca rinascimentale e coincide di fatto con la prima attestazione del suo culto27. Sappiamo inoltre da Giovanni Sforza che il tema venne rielaborato in forma poetica da Francesco Berrettari (1626-1706) che fece uccidere il vescovo di Luni Ceccardo proprio dai perfidi Normanni28. La vicenda di San Terenzio, santo venerato nell’alto medioevo lucchese-lunigianese e poi rivivificato da un testo agiografico scritto con grande probabilità nella prima metà del secolo XIII, vede il corpod el beato prima ucciso da malviventi, poi recuperato miracolosamente e infine trasportato da una coppia di giovenchi indomiti dal lido di Avenza alla chiesa di San Terenzo Monti (comune di Fivizzano). Il racconto, in comparazione con alcune attestazioni altomedievali del culto, è stato letto da Pier Maia Conti come un la traccia di un martirio effettivamente avvenuto in epoca longobarda e da Ubaldo Formentini come traccia “leggendaria” di una traslazione effettuata intorno al IX secolo. Per Formentini la chiesa di S. Terenzo a San Terenzo Monti – ritenuta già esistente nel 725, ma in realtà attestata con certezza dal 1185 – sarebbe stata costruita proprio «nelle condizioni topografiche più favorevoli per garantire l’incolumità del deposito di fronte alle incursioni marittime». Riprendendo Bonaventura de’ Rossi, lo studioso ritiene infatti ragionevole che corpo di Terenzio dovesse essere originariamente custodito in una chiesa prossima alla costa e che la traslazione che sia stata fatta per il timore di una incursione29. Un lavoro recente, operato con taglio interdisciplinare e su nuove fonti, ha invece tolto ogni plausibilità storica al racconto agiografico, nemmeno come ricezione di echi di contesti altomedioevali30.

Qualche parola ulteriore va spesa infine anche sul santo indubbiamente più rilevante della bassa Lunigiana – Venerio, le cui reliquie Bonaventura de’ Rossi dice traslate a Reggio Emilia nel IX secolo per salvarle dagli attacchi dei Saraceni31. Nel suo caso i riferimenti alla presunta traslazione prima alla foce del Magra e poi a Reggio Emilia presso il monastero di San Prospero fuori le mura, dovuta all’insicurezza delle coste, provengono da fonti agiografiche tarde e ancora prive di edizione critica attendibile32. L’unica Vita attualmente disponibile è quella che si trova nel Legendarium della fine del XIII secolo di Pietro Calò, riportato dai padri bollandisti con la segnalazione delle principali varianti presenti su due codici forse più antichi, ma ora perduti33. Come emerso dagli studi di Geo Pistarino, Paolo Golinelli e in ultimo Eugenio Susi i codici perduti sono di difficile datazione e il testo del Calò è palesemente inattendibile dal punto di vista delle indicazioni storiche. Monaco veneto e attivo principalmente a Padova tra XIII e XIV secolo Calò «conosceva assai poco della vita del santo e che compose la sua biografia servendosi da un lato di quel po’ di fonti, orali, scritte [..] ed archeologiche di cui era in possesso»34. Nel testo agiografico, dopo la morte e la deposizione di Venerio sull’isola del Tino ad opera del vescovo Lucio, si nomina il presule Lintecarius – non attestato altrimenti – che, dopo un infruttuoso attacco saraceno all’isola del Tino, avrebbe provveduto a far costruire una chiesa iuxta ripam Macrae fluminis in Sarzano, distante a civitate Lunensi per octo miliaria per farvi traslare il corpo. Come già notato da Susi e Pistarino l’ubicazione della chiesa – mai esistita in realtà – mostra una formulazione anacronistica per l’epoca dichiarata e ascrivibile in maniera molto generica ai secoli XI-XIII35. Uno dei miracoli del santo si verifica nel corso di un’incursione di Normanni provenienti da Arles, ma si tratta evidentemente di una reminiscenza tarda di quanto l’agiografo poteva aver agevolmente trovato negli Annali Bertiniani o in altre fonti simili, già qui abbondantemente esaminate. Inoltre, mentre la tradizione agiografica ligure non parla di alcun trasferimento direliquie, Pietro Calò le racconta invece traslate a Reggio Emilia permano del vescovo Apollinare – non altrimenti attestato – per salvarled agli attacchi saraceni al tempo di Ludovico il Pio (816). Costui, essendo venuto a conoscenza del pericolo, comandò infatti che i confini lunigianesi fossero custoditi dai presuli Longobardi, fino ache la ferocia dei barbari non fosse stata soggiogata. Tra questi il vescovo Apollinare, venuto a conoscenza della fama di santità di Venerio e visitando i luoghi dove il suo corpo riposava distrutti dai Saraceni,decise di metterne al sicuro le spoglie36.

Come già sottolineato da diversi studiosi la Vita di San Venerio presenta pochi riferimenti storici confusi e tra loro contraddittori, che non consentono di mettere in relazione né la effettiva vicenda umana del santo, né tantomeno le traslazioni delle sue spoglie con il pericolo saraceno-normanno del IX secolo. Al contrario è molto più plausibile che sia stata la presenza delle reliquie Reggio Emilia – il culto è attestato nell’XI secolo, i resti nel XII – a indurre nell’agiografo la ricerca di motivazioni antiche dedotte dalle fonti storiche che aveva a disposizione e dalle suggestioni culturali a cui era sottoposto37. Golinelli ritiene che il testo agiografico più antico e oggi perduto possa essere datato nella seconda metà dell’XI secolo, e Susi pensa si possa spiegare col rilancio del culto del santo da parte degli Obertenghi, in quel periodo patroni del monastero del Tino e forti dell’espansione patrimoniale in Corsica dopo aver contribuito all’eliminazione di Mujāhid (1016)38. Si tratta di un’ipotesi indubbiamente suggestiva e plausibile, ma che poggia a mio avviso su pezze d’appoggio ancora troppo scarne e traballanti: la complicata datazione di testi non più consultabili, le poche attestazioni del culto, il ruolo plausibile, ma non provato, degli Obertenghi nella spedizione anti-saracena in Sardegna e il collegamento tra questa e la loro espansione in Corsica39. Ma anche volendo accettare l’ipotesi del rilancio obertengo del culto di san Venerio a fronte della crescita del potere della stirpe in Corsica, questo non farebbe emergere alcuna relazione diretta tra la traslazione delle reliquie e la minaccia saraceno-normanna.

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III – 3.2 Morta Luni, viva la Lunigiana

La decostruzione delle narrazioni agiografiche qui sintetizzata è relativamente recente e fa molta fatica a penetrare in maniera chiara nella storiografia locale che, anche quando affronta il tema con la dovuta prudenza, non riesce mai totalmente a scrollarsi di dosso il legame con il mito delle disastrose incursioni saracene e normanne. I motivi sono diversi. Da un lato le pur problematiche tracce documentarie di quelle incursioni sono tra le pochissime attestazioni di eventi accaduti in Lunigiana nel periodo anteriore al Mille: difficile farne a meno e ancora più difficile non dare credito a tanta storiografia passata, che ha collegato pochi eventi sparsi in una interpretazione complessiva sensata – per quanto non verificabile – dell’alto medioevo lunigianese40. Tale lettura, d’altronde, è diventata in alcuni autori un tratto distintivo dell’area, una delle ragioni della mancanza di un centro urbano unificante e quindi della nascita stessa della Lunigiana come regione storica. Le incursioni, spingendo i santi verso luoghi più sicuri, avrebbero infatti inavvertitamente dato un ruolo maggiore a quella parte di Lunigiana interna che in età romana e tardo antica non poteva che avere un rilievo marginale: la tutela fornita dalla porzione interna e più protetta al patrimonio sacro marittimo avrebbe creato la saldatura che fatalmente mancava alla Lunigiana bizantino-longobarda. Per Geo Pistarino infatti «le incursioni saracene [..] assegnano alla Lunigiana interna una specifica funzione; ne determinano maggiormente la solidarietà spirituale e materiale con le zone costiere, soggette alle devastazioni islamiche; danno agli uomini del tempo il senso della patria aggredita dal mare, come si legge tra le righe della Vita che narra di san Venerio», santo che Pistarino etichetta addirittura come “nazionale” per la Lunigiana medievale, vero e proprio «mito unificante»41. In questa visione fu la Lunigiana interna, capace di riorganizzarsi e di riprendersi anche grazie alla rete viaria e alle fondazioni di monasteri e ospedali, a segnare nell’XI secolo la ripresa e a costruire quel tessuto culturale, sociale ed economico che contribuì a definirla come regione storica. «Quando Genova, insieme con Pisa, battuto Mujāhid in Sardegna nel 1016, elimina dal Tirreno il pericolo dei Saraceni» sostiene lo storico genovese «la Lunigiana come entità “culturale” è un motivo compiuto»42.

Nel 2017 il comune di Ortonovo (SP), dopo l’esito di un referendum appositamente organizzato decise di cambiare il suo nome in Luni, «in onore delle antiche gesta di un popolo (i Lunensi) che ha accolto i romani e fondato la terra di Lunigiana»43. La pagina dedicata alla storia entro l’attuale sito Web del Comune di Luni, racconta che «secondo la leggenda Luni, nella sua storia, fu invasa e distrutta ben otto volte» (sic), anche se vengono storicamente date per buone solo due incursioni: l’inganno di Hasting e i Saraceni del 1016. Tra i due attacchi troviamo un breve paragrafo dedicato al declino, che racconta come «le popolazioni decimate da stragi e da pestilenze abbandonarono progressivamente l’attività agricola in tutta la vallata lunense. I campi furono progressivamente abbandonati favorendo lo sviluppo della pastorizia che dava facile sostentamento. La mancanza di manutenzione delle efficienti opere di irrigazione e delle strade risalenti al periodo romano riportarono di secoli indietro la vita sociale e favorirono l’avanzata della malaria a causa dell’impaludamento della pianura». Il sodalizio tra il seicentesco Landinelli e l’immaginario popolare appare quindi, a tutt’oggi, solidissimo. Sul sito “Terre di Lunigiana”, forse il principale portale di divulgazione della cultura locale a fini di promozione turistica,t roviamo un palese appiattimento di tutto l’alto medioevo lunigianese sotto l’unica parola chiave della insicurezza dovuta alla minaccia esterna: «nel 642, le invasioni longobarde di Rotari portarono la città alla rovina; più avanti, con i Franchi, Luni fu saccheggiata dai pirati saraceni e nel 860 i Normanni invasero la città distruggendola. Nonostante un periodo di prosperità sotto la guida dei vescovi nel X secolo, l’insalubrità della zona e il progressivo interramento del porto, causarono l’emigrazione degli abitanti verso Sarzana»<ahref=”#fn44″ class=”footnote-ref simple-footnote” id=”fnref44″role=”doc-noteref”>44.

Si tratta di letture semplicistiche e superficiali, che ovviamente non trovano più spazio nella letteratura scientifica recente, la quale tuttavia non ha ancora fino a oggi affrontato la questione in maniera chiara e né provato a fornire del periodo una interpretazione complessiva aggiornata agli avanzamenti della conoscenza storica e alle scoperte fatte in campo archeologico e agiografico. Tuttavia, per sfatare i miti del passato, è sufficiente che emerga una nuova produzione storiografica scientificamente più aggiornata e attendibile?

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