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III.1.5 e 1.6 – La ricezione del testo e la tradizione erudita

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E. Salvatori, Il fegato del vescovo – III.1.5 e 1.6 – La ricezione del testo e la tradizione erudita

Riassumendo le evidenze analizzate fino a ora sull’attacco normanno a Luni possiamo dire che le fonti coeve al presunto evento (franche, asturiane, galiziane e andaluse) riportano concordi la memoria di una spedizione “danese” nel Mediterraneo effettuata tra 859 e 862, ma non nominano i capi militari né menzionano Luni tra le città depredate. Il primo a raccontare di Luni, a oltre 150 anni di distanza dal presunto evento, è Dudone da San Quintino, che probabilmente scelse Luni traendo ispirazione dall’attacco saraceno alla città toscana dell’849 riportato dagli Annali Bertiniani; Dudone inoltre fu il primo ad attribuire l’impresa a un non meglio noto Hasting, rendendolo protagonista dello stratagemma del finto funerale. In una delle due saghe norrene che menzionano la città, l’arrivo a Luni è completamente diverso: non porta alla distruzione e prevede l’incontro con un mendicante; in entrambe non si trova cenno dello stratagemma e i protagonisti sono i figli di Ragnar Loðbrók. I continuatori normanni e francesi di Dudone – autori di cronache epico-cavalleresche – uniscono le due tradizioni: riportano lo stratagemma arricchendolo anche di particolari gustosi – come quello della profezia del chierico – ma indicano come protagonisti sia Hasting, sia uno dei figli di Ragnar Loðbrók, Björn Fianco o Costa di ferro.

È bene sottolineare che le opere di Dudone e dei suoi continuatori appartengono a una peculiare categoria: sono racconti epico-cavallereschi, cronache e poemi, talvolta in prosa e poesia insieme, dedicati alle gesta di personaggi che si intendono valorizzare. Per loro natura sono in genere poveri di agganci concreti agli eventi e ricchi invece di particolari più o meno fantasiosi. Presenta invece caratteristiche profondamente diverse la scrittura degli annali e delle cronache prodotte all’interno di monasteri e canoniche: qui lo stile risulta di norma estremamente più asciutto, mentre il riferimento agli anni e ai luoghi tende a essere relativamente più puntuale.

Appartiene a questa tipologia il resoconto dell’evento riportato da Ugo di Fleury, monaco benedettino e cronista dei primi decenni del XII secolo (muore dopo il 1118). Nella sua Modernorum regum francorum actus, che copre gli anni dal 842 al 1108, annota attorno all’872 la presenza dei Danesi a Luni, detti pirati – come negli Annali Bertiniani -, guidati da Alstagnus / Hasting – come in Dudone-, che tuttavia non era altro che Gormond, il leggendario re saraceno del poema in antico francese Gormond et Isembart1

His etiam diebus Dani pyraticam exercentes, duce Alstagno per portum Flandrensium emergentes, vi magna Francia invaserunt, et Vermendense atque Noviomense territorium ita penitus attriverunt, [..]. Unde rex Karolus cum prefato tyranno fedus pepigit, et hostem, quam ferro nequibat, auro conspecuit. Quo federe securus Alstagnus a Francorum terra per oceanum palagus Italiam tendens, Lunae portum attigit, et ipsam urbem continuo cepit. Qua potitus, per numerosa annorum curriculaibidem deguit, regique familiaris postmodum factus et, ex inimico amicus. Verum iste Alstagnus vulgo Gurmundus solet nominari.2

Nel Chronicon Turonense magnum, scritto da un canonico della chiesa di San Martino di Tours all’inizio del XIII secolo, troviamo che Carlo il Calvo, dopo aver liberato dall’assedio normanno Angers con l’aiuto del re della Britannia Minore, lasciò partire i Danesi nonostante le loro ripetute sconfitte, ma a fronte di un loro tributo. Questi, comandati da Hasting, andarono per mare in Italia, dove presero la città di Luni e diventarono alleati dello stesso Carlo.

Quos Carolus Calvus adunato exercitu viriliter insecutus, auxilio Salomonis regis Minoris Britanniae, Andegavim obsidet et impugnat. Cumque Dani diversis assultibus lacessiti venire ad deditionem compulsi fuissent, Carolus rex, invito exercitu, a Danis recepta pecunia, eos abire permisit. Sicque Hastingus per pelagus Italiam rediens, Lunam civitatem cepit, et ibi remansit, et factus est Carolo ex inimicus amicus3.

È da quest’ultima tipologia di fonti – la annotazione concisa ed essenziale su cronache e annali – che la notizia della distruzione di Luni arrivò in Lunigiana, venendo registrata più di quattro secoli dopo la presunta data degli eventi. Ce lo dice un brano copiato nel Codice Pelavicino e qui portato dal vescovo Enrico da Fucecchio o dal suo scriba Egidio da Bligny nel tardo XIII secolo.

Prima di diventare vescovo di Luni (1273), Enrico da Fucecchio fu canonico di Sant’Omero nella diocesi di Thérouanne (presso Calais) nel 1269 e diventò magister probabilmente all’Università di Parigiin data imprecisata; Egidio da Bligny, come recita li nome, proveniva dalla località della Borgogna Bligny-sur-Ouche, arrivò a Luni probabilmente nel seguito di Enrico ed era già canonico lunense due anni prima di iniziare il lavoro di trascrizione (1285)4. Fu quasi certamente uno dei due, nei rispettivi soggiorni in area francese,ad intercettare nelle cronache manoscritte degli archivi di Saint Denis a Parigi la notizia della conquista normanna di Luni, a copiarla e inseguito trascriverla nel Codice Pelavicino. Questo volume, giunto di recente a nuova edizione digitale, conserva il liber magister e il liber iurium della Chiesa lunense: venne redatto su volontà di Enrico da Fucecchio alla fine del XIII secolo e contiene copia di 529 documenti relativi a beni, diritti e interessi della diocesi di Luni dal X al XIII secolo. Nella sezione del liber magister del Codice troviamo il brano sui Normanni, tratto dagli archivi di Saint-Denis: narra come i Daci provenienti dalla Scitia sotto la guida del comandante Rollone sottomisero la Neustria, chiamata poi Normandia, la Bretagna minore e altre regioni del regno dei Franchi; giunti a Luni la distrussero scambiandola per Roma; tornati in Francia si accordarono con Carlo il Semplice nel 912.

Memoria de civitate Lune et eius destructione.

In diebus illis venerunt Dati sive Dani de Scitia, duce Rollone, et subiugaverunt sibi totam  Neustriam quam Normaniam appellaverunt vocabulo composito ab hiis duobus nominibus: nort quod sonat septentrio et man quod sonat homo, set et Britaniam minorem et multas alias regiones in regno Francorum depopulati sunt et universas ecclesias destruxerunt. Set et Lunam, Tuscie civitatem in diebus illis florentissimam, penitus everterunt, putantes ut dicitur quod illa esset Roma et inde reversi in Franciam tandem cum Karulo Simplici confederati sunt. Anno ab incarnatione Domini VIIIIc XII hec hystoria seu crunica exemplata fuitex archivis hystoriarum et antiquitatum ecclesie Sancti Dyonisii Parisiensis de Francia5.

L’estratto deriva quasi certamente dalle Gesta Philippi Augusti di Guglielmo il Bretone, a sua volta continuatore di Rigord6.

Rigord, originario della Linguadoca, dove 1183-86 esercitava la professione di medico, entrò come monaco prima ad Argenteuil, poi a Saint-Denis dove lo troviamo dal 1189 alla sua morte avvenuta 12097. Nelle sue Gesta, alla metà della biografia di Filippo Augusto, pone una sezione dedicata alle origini dinastia reale, che contiene parte del brano in seguito copiato nel Codice Pelavicino: l’origine dei Dani, l’etimo del termine Normanni, e la cessione della Normandia a Rollone da parte di Carlo il Semplice. Non vi è tuttavia tuttavia alcun accenno a Luni.

Tempore istius, Dani de Scythia per Oceanum vecti ceperunt Rotomagum, habentes ducem nomine Rollonem, qui multa ecclesiis Dei intulit mala. Iste totam sibi Neustriam subjugavit et a nomine gentis sue Normanniam vocavit. Normanni vero lingua barbara homines septentrionales dictisunt, eo quod primum ab illa mundi parte venerint. Nort enim septentrio, man homo dicitur. Karolus vero Simplex, inito cum eis federe, filiam suam Rolloni uxorem dedit et Normanniam cum ipsa concessit. Qui scilicet Rollo, anno ab incarnatione Domini DCCCCXII baptizatus, Robertus nomen accepit, atque exinde gens Normannorum, Christo credens, fidei christiane subjecta est8.

Guglielmo il Bretone, morto nel 1226, servì Filippo Augusto come cappellano in diverse missioni diplomatiche, ne illustrò la vita in versi nel poema Philippide e riprese l’opera di Rigord, trovandola in archivis ecclesie Beati Dionysii, facendone prima un compendio e poi continuandola per gli anni 1207-12209. Nelle sue Gesta Guglielmo inizia con le origini della casaregnante e quindi pone nella porzione iniziale il racconto dei Normanni. Al paragrafo 10 troviamo esattamente il brano riportato nel Codice Pelavicino, che presenta in aggiunta la sola notizia del battesimo e matrimonio di Rollone con la figlia di Carlo il Semplice.

In diebus illis venerunt Daci sive Dani de Scythia duce Rollone et subjugaverunt sibi totam Neustriam, quam Normanniam appellaverunt, vocabulo composito ab his duobus nominibus nort quod sonat septentrio, et man quod sonat homo. [Sed et Britanniam minorem, et multas alias regiones in regno Francorum, depopulati sunt, et ecclesias universas destruxerunt; sed et Lunam, Tuscie civitatem in diebus illis florentissimam, penitus everterunt, putantes, ut dicitur, quod illa esset Roma; et inde reversi in Franciam, tandem Carolo Simplici confederati sunt.] Nam et ipse Rollo, filiam ejusdem Caroli Simplicis in uxorem ducens, baptizatus est, et vocatus fuit Robertus, et omnes alii Normanni cum eo christiani facti sunt anno ab incarnatione Domini DCCCCXII10.

In sostanza nella Lunigiana del tardo Duecento si venne a conoscenza dell’attacco normanno del IX secolo grazie a informazioni tratte da annali coevi e quindi cronologicamente molto lontani dal presunto evento, dove erano state accolte in forma sintetica tradizioni diverse. In tutto il corposo Codice non vi è altro accenno a distruzioni, saccheggi e attacchi perpetrati da popoli stranieri di qualsiasi origine. La notizia dell’attacco normanno rimase in ogni caso sostanzialmente sterile nell’ambito lunigianese e toscano fino al Quattrocento inoltrato. La prova la troviamo nei più antichi commenti alla Commedia dantesca e in altri autori del Tre e Quattrocento toscano.

Dante parla di Luni – località che ha frequentato ospite del Malaspina certamente tra 1306 e 130811, in due passi della Commedia. La prima è nell’Inferno, nella IX bolgia del cerchio VIII, dove sono puniti gli indovini e dove il poeta incontra l’aruspice etrusco Arunte, che dice vivesse in una grotta nel marmo delle Apuane, dove gli abitanti di Carrara facevano opera di disboscamento<ahref=”#fn12″ class=”footnote-ref simple-footnote” id=”fnref12″role=”doc-noteref”>12. La seconda, più significativa per il nostro argomentare, è nel Paradiso, nel V cielo di Marte: nel colloquio tra Dante e l’avo Cacciaguida si tratta delle cause della decadenza di Firenze e della caducità di tutte le cose umane.

Se tu riguardi Luni e Orbisaglia / come sono ite, e come se ne vanno / di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia, / udir come le schiatte si disfanno / non ti parrà nova cosa né forte, / poscia che le cittadi termine hanno13.

Mentre le cave di marmo di Carrara sono la dimora ideale, isolata e alta, per investigare il destino dell’uomo guardando le stelle e l’orizzonte marino, i resti dell’antica Luni assurgono nella Commedia a simbolo – assieme a Urbisaglia – del destino di oblio che riguarda ogni costruzione umana, che siano città o stirpi famigliari.

Ai nostri fini è interessante sottolineare che Dante non nomina la ragione per la quale Luni «se n’è ita» e che nessuno dei più antichi commentatori della Commedia faccia la minima menzione di attacchi saraceni o normanni quali agenti distruttori14.Il Codice cassinese (seconda metà del XIV secolo) si limita a dire dove sono le località menzionate e a ribadire il loro stato di abbandono<ahref=”#fn15″ class=”footnote-ref simple-footnote” id=”fnref15″role=”doc-noteref”>15; Benvenuto da Imola (1375-80) ci dice che la causa è da cercarsi nella superbia dei cittadini (propter superbiam civium) dato che la città fu olim magnaet potens civitas, tamen deserta jam sunt mille anni16.Mentre Francesco da Buti (1385-95) riporta una causa leggendaria – l’ira di un marito tradito – e una “scientifica” – la corruzione dell’aria e l’avanzare dell’incolto -, che non contemplano tuttavia attacchi digenti pagane:

[..] e fu disfatta perché una donna d’uno grande signore, che vi passava con essa, li fu tolta con nuovo e mirabile inganno alloppiata,sicché parve morta, e data a la sepultura fu fatta tornare in vita, poiche lo signore si fu partito; ma, saputosi poi da quel signore, vi venne con grande esercito e disfece la detta città, e rimenòsene la donna sua; la quale città mai non si rifece poi, perché l’aire v’è infermo e corrotto, et anco per la moltitudine de le serpi che v’abbondono e sonovi ancora: unde si dice: In misera Luna morti nox sufficit una[..]17.

La leggenda della distruzione dovuta alla vendetta per un adulterio rafforzata dall’insalubrità dell’aria si ritrova, prima che in Francescoda Buti, nella Cronica Giovanni Villani (1280-1348)18. Non è qui il caso di indugiare oltre sul rilievo che ebbe questa favola medievale, che si ritrova anche in altri autori quali ad esempio Giovanni Sercambi (1347-1424), Goro Dati (1362-1435) e nelDittamondo di Fazio degli Uberti (1305/1309-post 1367): già Giovanni Sforza ne ha scritto una esauriente disamina19. Faccio semplicemente notare che per trovare nei commenti danteschi un minimo accenno agli attacchi Normanni dobbiamo aspettare gli inizi del Novecento, quando Francesco Torraca cita la devastazione ad opera del perfido Hasting ricavandola dal Roman de Rou20. In realtà questa era arrivata in Toscana già da qualche secolo, prima rielaborata da Antonio Ivani e in seguito “scientificamente” discussa da Ippolito Landinelli.

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III 1.6 La tradizioneerudita.

Furono infatti gli umanisti del XV secolo e il forte impulso da questi impresso alla trattazione storiografica a portare veramente i Normanni a Luni. Il rinnovato interesse non solo per i classici, maanche per tutte le altre scienze umane dalla filologia alla filosofia, dalla storia al diritto, dalla mitologia all’archeologia fece infatti fiorire un po’ dovunque gli studi sulla storia locale, guardata attraverso le fonti scritte (cronache e annali) e materiali (resti archeologici, epigrafi).

Il primo studioso che prese nota dell’attacco, ricavandolo da una «vetustissima» bibbia conservata a Sarzana, pare sia stato il cosiddetto padre dell’archeologia, Ciriaco d’Ancona. Come già notato dallo Sforza, questo studioso, viaggiando tra Lucca, Sarzana, Luni e Carrara nell’autunno del 1442, riportò il seguente brano de Lunae antiquissimae civitatis desolatione tratto da un codice oggi perduto:

In regno Danismarch gens fuerat Normanda, quae anno DCCCLVII civitatem Luna e delevit, et post aliquod tempus refecta, per cives Lucanos iterum destructa fuit21.

Ciriaco d’Ancona, tuttavia, non commentò né analizzò il brano, che -notiamo – non è tratto da nessuna delle fonti esaminate finora e presenta due elementi nuovi: la data dell’857 e l’attribuzione a Lucchesi di una seconda e forse definitiva distruzione22.

In Lunigiana, terra natale di «umanisti destinati a ricoprire un ruolo di eccezione nel panorama politico e culturale dell’Umanisimo» come Bartolomeo Facio, Iacopo Bracelli, Gottardo Stella e Tommaso Parentucelli23, fu Antonio Ivani a recuperare per primo, da fonte ignota, la storia del subdolo inganno di Hasting. Accadde nel 1454 quando, ancora giovane si trovava a Ferrara precettore di Tommasino Fregoso. Qui Ivani scrisse le sue prime due opere storiche: l’Expugnatio Constantinopolitana, un breve testo sulla caduta della città sul Bosforo dedicato a Federico da Montefeltro, e la Historia de excidio Lunae, un brevissimo racconto sulla ormai nota strage operata dai Normanni24. Grazie a Paolo Pontari, recente editore delle opere storiche dell’Ivani, non solo possiamo correttamente leggere l’Historia tra primissimi tentativi letterari di questo umanista lunigianese, ma anche metterla in relazione al testo su Costantinopoli: le due città sono accomunate da una sorte tragica, «entrambe conquistate da un popolo invasore, barbaro e miscredente, ed entrambe crollate nonostante l’eroica resistenza degli assediati»25. Fu quasi certamente la notizia della avanzata dei Turchi sulla capitale bizantina a spingere il giovane Ivani alla composizione della Expugnatio Constantinopolitana e,di conseguenza, anche a sollecitare la sua attenzione sulla per certi versi analoga vicenda di Luni26.

Secondo quanto dichiara lo stesso autore, la Historia de excidioLunae sarebbe la riscrittura latina di un poema in volgare di Leonardo da Padova, che tuttavia ci è completamente ignoto, anche se è plausibile – come ipotizza Paolo Pontari – che Ivani sia ricorso a una comune finzione letteraria, il topos della storia nascosta e recuperata27. Il contenuto riprende a grandi linee il racconto che abbiamo trovato nel Roman de Rou e nel poema di Benoît de Sainte-Maure, con un maggior rilievo dato all’esortazione di Hasting ai Danesi per farli intraprendere il viaggio verso Roma, modellata su tre orazioni all’epoca ben note agli Umanisti: la presunta orazione di Demade agli Ateniesi, il discorso di Catilina ai suoi complici di Sallustio e l’esortazione virgiliana di Enea ai compagni. Tra le ragioni dell’erronea identificazione di Luni con Roma, Ivani non cita solo la bellezza della città ornata dai marmi apuani, ma anche l’ignoranza geografica dei Danesi. Dopo la profezia notturna del chierico, Hasting simula un naufragio sulle coste limitrofe che motiva la sua richiesta di aiuto al vescovo e finge di essere gravemente malato. A differenza di quanto si legge altrove è tuttavia il compagno di avventura Bjorn Costa di Ferro, e non Hasting, ad essere posto entro il feretro, armato fino al collo. Segue la strage e la distruzione che perdura per quattro giorni28.

Traduzione in latino o vera e propria riscrittura, l’Historia de excidio Lunae non ebbe un grande successo: venne inviata dall’autore a Giovanni della Porta, commissario ducale a Pontremoli per Francesco Sforza nel 1462, e da questo trascritto in un codice conservato a Novara; non venne invece trascritta dall’autore stesso nel corpus autografo delle sue opere, composto a partire dal 1464 e conservato alla Biblioteca Durazzo di Genova. Il mancato inserimento dipese probabilmente dal fatto che Ivani nel tempo mutò il giudizio sulla sua opera: nel 1466 la definì infatti indigna praestantissimis ingeniis e fondata su notizie volgari prive di qualsiasi attendibilità storica29.

L’interesse verso la decadenza e scomparsa di Luni, però, si era ormai risvegliato in Lunigiana e la drammatica storia dell’inganno di Hasting aveva cominciato a circolare tra gli intellettuali dell’epoca. Anteriormente alla metà del ‘500, un non meglio noto Giovanni de Fabris di Bagnone trascrisse e abbellì un libello inepte ac rudescripto, che pare contenesse due diversi racconti della distruzione normanna. L’opera di de Fabris, oggi perduta insieme al fantomatico libello originario, è stata ripresa prima dal cronista e notaio di Pontremoli Giovanni Maria de’ Ferrari, detto ser Marione (morto nel 1548)30 e in seguito da Bonaventura de’Rossi (1666 – 1741)31. Il primo dei due racconti si presenta come l’improbabile trascrizione e rielaborazione di una missiva del 1034 scritta al vescovo di Luni Vidione o Veridione dal notaio della diocesi Lunense Guidone da Bibola, dopo che costui aveva trovatoc asualmente la notizia in un libro di negromanzia. Questo il testop arziale della lettera come riportato da de’ Rossi:

Ego ser Guidonus de Bibula cuncta prospera cum salute spectabilitati vestrale aperte facio, etc. Dum morarer in Anglia anno Domini 1034 praemanibus mihi venit quidam liber Nigromantiae, qui multum loquebatur defactis Normandiae, et in dicto libro inter alia inveni haec nova deiteritu civitatis Lunae; [..] Et hoc fuit tempore Benedicti III pontificis et Ludovici Baldi imperatoris quod que fuit anno Christi85732.

Le incongruenze sono numerose e saltano agli occhi. Il presunto notaio, che a quella data non poteva certamente essere della curia lunense né autodefinirsi ser, non è nominato nel Codice Pelavicino, dove invece troviamo Guido da Bibola tra i testimoni di un importante documento obertengo del 108433. Altamente implausibili per una lettera dell’XI secolo appaiono inoltre sia l’incipit «Ego», sia il termine nigromantia come la formula usata per indicare la data34. Non abbiamo infine alcuna possibilità di verificare chi fosse il vescovo di Luni nel 1034: la presunta lettera, infatti, si pone molto furbescamente entro una lacuna documentaria, tra l’ultima attestazione di Guido (1027) e la prima di Eriberto (1039)35.

Nell’introduzione al racconto Giovanni de Fabris ci dice che il libro di negromanzia sarebbe stato venduto a Guido da un normanno mentre il notaio si trovava in Inghilterra e il contenuto sarebbe stato in seguito trascritto dal figlio di Guido, Luisino:

[Infrascripta est] memoria civitatis Lunae, [quae] quod est principium provinciae Thusciae, idest [quomodo et quando] quando et quomodo destructa fuit; quam memoriam detuilt quidam vir sapiens dominus Aloysius sive Luisinus quondam notarii [Guidonis] N. de Bibula, dictae diocesis, qui dum esset in Anglia anno a nativitate domini nostri [Iesu Christi 1034] Yeshus Xpi MXXXIIII invenit [quemdam Normanum] quendam romantium, qui multum loquebatur de factis [Normandiae] Normandis et vendidit sibi librum, in quo scripta erant plura, et inter alia invenit scripta ea, quae inferius [denotantur] denotata36.

Non è il caso di riportare in esteso il testo, in quanto bastano le prime righe, contenenti la motivazione antropologica delle incursioni normanne, per comprendere che, qualsiasi sia stata la scrittura originaria, questa non avrebbe potuto essere mai stata redatta nell’epoca dichiarata.

Nam in regno de Danismarch tunc temporis in expeditione armorum erant gentes nobilissimae atque probae quibus domi morari vituperium videbatur, quin irent per mundum eorum fortunam indagando et in totum domi moram contraxerunt, et sic moltiplicati fuerunt multitudine hominum quod de facultatibus eorum regere se non poterat, nec substentare; ita quod sapientes de regno de Danismarch ad invicem congregati decreverunt quod medietas hominum de regni abiles ad arma ferenda ire deberent permundum eorum fortunam prosperam inquirentes, et ad hoc ne quis pretenderet iniuriam sibi fieri providerunt, quod homines ituri eligi deberent hoc modo, videlicet quod in domo cuiusque ubi essent duo homines habiles ad eundum metteretur sors inter eos, et qui sorte eligeretur equitaret et se parare et cum aliis ad eundum37.

Valga come prova ulteriore, il fatto che il racconto comprende anche l’episodio della profezia del chierico e dell’avvistamento delle navi normanne, che abbiamo visto essere molto probabilmente “inventato” da Robert Wace alla metà del XII secolo.

Se il primo racconto riporta l’episodio dell’inganno di Hasting nelle linee già note, nobilitandolo tramite la cornice della falsa lettera del mai esistito notaio Guido da Bibola e del suo altrettanto immaginario figlio Luisino38, il secondo è un falso costruito in maniera ancora più pacchiana: Hasting, chiamato Absdemech sarebbe il progenitore della famiglia degli Albadini; sulle navi dei Normanni sventolavano le «insegne di Pier Costa»; il conte di Luni diventa il progenitore della famiglia Cattani di Sarzana, che a causa dell’attacco si trasferì a Marciaso39. Al di là delle evidenti invenzioni- il secondo testo è considerato persino da de’ Rossi un «impasto di curioso ingegno» – le due testimonianze del perduto libello sono oltremodo interessanti: attestano infatti l’interesse che l’attacco normanno aveva ormai suscitato tra gli umanisti e studiosi lunigianesi,al punto di usarlo come pretesto per nobilitare l’una o l’altra casata locale.

Non furono comunque Antonio Ivani, né Giovanni de Fabris o ser Marione a promuovere la leggenda di Hasting in Lunigiana, ma, agli inizi del seicento, Ippolito Landinelli, il primo che inserì le diverse fonti in una trattazione scientifica ben bilanciata, relativa alla distruzionee scomparsa della città romana, e riportò una nuova fonte ritenuta autorevole: la Chronica regnorum aquilonarium Daniae, Sueciae, et Noruagiae del tedesco Albert Krantz, stampata postuma nel 1545 e ristampata diverse volte nel corso del XVI secolo40.

Nella sua corposa opera storia sulla Lunigiana, rimasta inedita fino ai nostri giorni41, Landinelli dedica una lunga dissertazione proprio alla destruzione di Luni che esamineremo nella sua unitarietà in seguito: qui basti dire che lo studioso non solo riporta in volgare quanto ha letto nella Chronica del Krantz, ma lo mette anche in comparazione con altri testi, tra cui Dudone di San Quintino, il brano riportato nel Codice Pelavicino, la Chronica Turonense e Guglielmo di Jumengés. In sostanza Ippolito Landinelli è stato il primo studioso locale a trattare la materia da storico,recuperando e confrontando criticamente le diverse fonti e traendone la sua interpretazione. Questa assegna ai Normanni la responsabilità primaria della scomparsa della città di Luni, a cui si sono aggiunte nel tempo altre importanti concause: gli attacchi saraceni e l’insalubrità dell’aria.

Ho voluto far questa poca disgressione, persuadendomi non sia per dispiacerti cortese lettore e per confermarti magiormmente della commune opinione del paese nostro, che questa ruina sia successa primieramente da questa nazione [i Normanni], secondariamente da corsari saraceni, e poi dalla corruzione dell’aria cagionata dalla scarsità degli abitatori. Ecco che ne dicono altri autori prima del Krantz di nazione francese e tedesca, uomini gravissimi, i quali confermano espressamente l’opinione nostra e tutto ciò che habbiamo narrato di questa distruzione<ahref=”#fn42″ class=”footnote-ref simple-footnote” id=”fnref42″role=”doc-noteref”>42.

Con la sua dissertazione sulla distruzione di Luni e soprattutto conla sua opera complessiva sulla storia della «Provincia di Lunigiana» il Landinelli si pose localmente come autorità indiscussa sul tema, a cui si rifecero gli storici successivi, primo fra tutti il sarzanese Bonaventura de’ Rossi, che in un certo senso replicò l’impresa del Landinelli nella sua celebre Collectanea, trattandola tuttavia con maggiore superficialità e ritenendo per buona la falsa lettera di Guidone da Bibola43.

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