II.9 – La provincia federiciana e i suoi vicari
E. Salvatori, Il fegato del vescovo – II.9 – La provincia federiciana e i suoi vicari
È infatti con Federico II che il macro-toponimo Lunigiana passò per la prima volta a indicare non più uno spazio puramente geografico, ma una circoscrizione ufficiale, per quanto dai confini non facilmente definibili.
L’interesse dello svevo la Francigena lunigianese scattò nel periodo finale del suo impero, quanto, nell’inverno del 1239 l’imperatore scatenò la sua offensiva in risposta alla scomunica papale e rese Uberto Pallavicino vicario imperiale nella Lunigiana e nel Pontremolese1.
La scelta di inquadrare anche lo spazio lunigianese entro un vicariato rientrava nel programma complessivo di riassetto amministrativo del Regno che prevedeva «la riorganizzazione di gruppi di città e territori in spazi subregionali affidati all’autorità di un vicario generale» e che l’imperatore attuò su larga scala dopo le vittorie contro le città comunali dell’Italia settentrionale e la scomunica del 12392. Come sottolinea Paolo Grillo, la visione di Ernst Kantorowicz su questa svolta federiciana quale antefatto delle signorie rinascimentali è stata riconsiderata e rivista dalla storiografia recente, ma si sente ancora la mancanza di studi approfonditi sulle conseguenze politiche e istituzionali del dominio federiciano su gran parte delle città dell’Italia comunale3. Gli studi sulla Toscana – la regione dell’Italia comunale dove l’Impero ha esercitato la maggiore influenza – hanno messo in evidenza «l’efficacia del governo federiciano, la sua spinta verso un capillare controllo del territorio, la sua capacità di introdurre nuove forme di amministrazione della giustizia, la vera e propria soggezione a cui gli ufficiali di nomina sveva avevano sottoposto le città principali, soprattutto a partire dagli anni Quaranta del Duecento»4. All’interno di queste ricerche, nonostante le poche seppur rilevanti pagine di Gioacchino Volpe, la vicaria di Lunigiana non ha ancora ricevuto l’attenzione che merita, sia relativamente al suo funzionamento nel periodo imperiale, sia soprattutto in riferimento alla sua lunga e complessa eredità dopo la morte dello svevo5. Oggi, grazie soprattutto alla riedizione del Codice Pelavicino -chiamato così proprio dal primo vicario – è possibile dire qualcosa di più.
Come segnalato da Gioacchino Volpe, Uberto Pallavicino aveva già affiancato il vescovo di Luni nel 1238 quando lo troviamo a Sarzana testimone a un suo atto6; tuttavia la nomina vicariale arrivò più di un anno e mezzo dopo: nel dicembre del 1239 Federico si era infatti impadronito del castello di Pontremoli, aveva preso prigionieri una sessantina d’uomini del posto e condotto in catene anche il vescovo di Luni, esautorandolo di fatto dai suoi poteri sul comitatus Lunensis. In quella circostanza l’amministrazione fu affidata -appunto – al marchese Uberto Pallavicino, che divenne vicario imperiale in Lunexana et Pontremulensi7.
La duplice indicazione topografica (Lunexana et Pontremulensi) denota la consapevolezza che la nuova vicaria riguardasse una realtà frammentata, dove emergevano almeno due poli distinti e complementari: il distretto di Pontremoli e lo spazio dominato dal vescovo di Luni. La conferma ci viene da un documento di pochi giorni successivo alla nomina, quando l’imperatore, dopo aver soggiornato brevemente a Sarzana (14-15 dicembre), diede da Pisa mandato che le galee inviate a Napoli cariche di prigionieri lombardi fossero qui svuotate, nuovamente riempite di frumento e rispedite fino a Sarzana in terra Lunesana, al fine di approvvigionare per sei mesi i presìdi che lui deteneva in partibus Pontistremuli et terra Lunesana, ovviamente sotto la supervisione del suo nuovo capitano / vicario8. La realtà composita della vicaria, che comunque Federico stesso ammette di non conoscere bene, emerge anche nella documentazione successiva, nella ricorrente doppia menzione di Pontremoli e della Lunigiana e nell’uso del termine partibus accanto al genitivo del macro-toponimo9.
Il ruolo di vicario fu svolto dal Pallavicino con una discreta continuità: solo nell’aprile 1240 abbiamo traccia di un diverso funzionario, Rainaldo de Guasto, già capitano imperiale e rettore d’Ivrea e del Canavese10. Nel frattempo, probabimente, il vescovo di Luni non era rimasto in catene. Le fonti sono scarse e poco parlanti, tuttavia è probabile che il prelato non fosse tra i 400 ostaggi spediti a Napoli in nave per essere tenuti prigionieri in diverse località del regno. Lo intuiamo dal fatto che il 23 dicembre del 1239 a Pisa Federico gli avrebbe scritto (venerabili episcopo Lunensi fideli suo), promettendogli di custodire le case e le torri di Vezzano, Ponzanello e Fosdinovo e di restituirgliele alla fine della guerra11. Inoltre, il vescovo è attestato sporadicamente agire come signore e proprietario terriero nel corso del 1240 a Castelnuovo, Santo Stefano Magra e Bedizzano. Nel marzo 1241 si trovava ancora a Castelnuovo Magra per far redigere una lista precisa dei censi dovutigli dagli uomini di questa località12.
Le cose mutarono però tra l’autunno 1240 e l’estate del 1241, quando la Riviera di Levante e Lunigiana furono teatro di diverse azioni militari. A metà novembre 1240 il vicario Uberto Pallavicino entrò cum magno exercitu nella terra del comune di Genova e indirizzò l’assalto sulla Riviera di Levante nelle due estati successive (1241-1242), mentre il vicario di Lombardia Marino da Eboli interveniva contro Genova da settentrione e da occidente13.Partecipavano al fronte imperiale lunigianese oltre lo stesso Pallavicino, i marchesi Malaspina, Pisa e vari signori e comunità della Riviera, della Lunigiana e della Garfagnana14.
Il precipitare degli eventi coinvolse certamente anche il vescovo Guglielmo, che letteralmente scompare dalla documentazione dopo il marzo 1241. È probabile che sia stato tra i prelati e cardinali imbarcatisi a Genova nell’aprile di quell’anno diretti a Roma per il concilio indetto da Gregorio IX, che l’imperatore fece catturare dalla flotta pisana per poi inviare prigionieri in Puglia15. Secondo le cronache dell’epoca pare tuttavia che gli ostaggi siano stati tutti rilasciati due anni dopo, nella primavera del 1243, in modo da consentir loro di recarsi a Roma e provvedere all’elezione di Sigebaldo Fieschi dei conti di Lavagna a papa Innocenzo IV16. Guglielmo però non risulta presente al concilio di Lione indetto da quest’ultimo del 124517. Altre due fonti di poco successive conforterebbero l’ipotesi della prigionia: quando nel 1255 il vescovo chiese ad Alessandro IV il permesso di vendere parte dei suoi rustici o villani motivò la richiesta con le vessazioni che l’imperatore gli aveva fatto subire prima della sua cattura e mentre era tenuto in catene (dum ab ipso Frederico in vinculis teneretur) e che avevano portato a un forte indebitamento della chiesa lunense18; in un breve ad memoriam fatto scrivere dal suo successore a sostegno di una causa contro i Bianchi di Erberia, si sostiene infine che Guglielmo sia rimasto prigioniero di Federico per dieci anni o più (captus fuit a vicariis domini imperatoris et detentus in carceribus X annis et plus)19. Anche se l’indicazione è generica, coincide effettivamente con il periodo di assenza rilevabile dalla documentazione: 1241-1252.
La permanenza del Pallavicino nella carica vicariale è attestata solo fino al 1243: nel gennaio il marchese, agendo da tramite per diversi signori della Lucchesia, è detto infatti vicario generale in Lunisiana, Versilia, Garfagnana et partibus convicinis20 e in quell’anno organizzò anche un piccolo inganno per catturare parte dei consiglieri della ribelle Pontremoli e completare l’opera di distruzione delle sue mura21. Dopo questa data purtroppo la documentazione sui titolari della carica imperiale nella zona si fa più lacunosa. Si sa che nel 1247 il vicario in carica venne fatto prigioniero dagli stessi Lunigianesi rivoltatisi contro l’imperatore, ma quasi certamente non si trattava del Pallavicino, che l’anno prima era stato nominato podestà di Reggio Emilia e che nel 1249 divenne vicario generale del sacro romano impero in Lombardia22. L’anno successivo abbiamo una nuova “riorganizzazione”: quale che fossero le dimensioni dell’originaria vicaria – probabilmente estesa sul Pontremolese, la bassa Val di Magra, Garfagnana e Versilia – la olim provinciam Lunisiane venne prima conferita per donazione al re di Sardegna (Enzo) e poi data in feudo a Pisa con l’eccezione del castello di Pontremoli e delle terre di Corrado Malaspina; mentre la Garfagnana fu affidata Lucca23. Si trattò di una mossa dettata dall’emergenza e dall’opportunità, legata a contingenti necessità di controllo periferico e molto lontana da rispondere a una strategia di controllo amministrativo stabile e organico, come dimostra anche la lettera dell’imperatore a re Enzo per giustificare la manovra24. La stessa Sarzana, che aveva approfittato del dominio imperiale per acquisire maggiore autonomia, si affrettò a radunare il consiglio e nominare due rappresentanti per siglare un patto con Pisa quale referente imperiale25.
In sostanza nel decennio dalla costituzione alla morte di Federico II la neonata provincia / vicaria lunigianese non ebbe assetto stabile, comprendendo o escludendo di volta in volta il distretto di Pontremoli, la Versilia, la Garfagnana, nonché i domini di Corrado Malaspina. Il suo controllo rispondeva quindi a ragioni squisitamente militari più che a una strategia complessiva di riorganizzazione del regno: lo dimostrano in particolare le richieste di approvvigionamenti e di armati associati alle manovre militari condotte dal Pallavicino nella Liguria di Levante e sulla Riviera. Fu un periodo breve, ma intenso, che ebbe tuttavia almeno tre conseguenze di rilievo: una prima razionalizzazione della gestione del patrimonio vescovile, una accresciuta fragilità del dominio signorile del vescovo e infine l’affermarsi del concetto di provincia di Lunigiana.
Esaminiamo per prima la questione della gestione del patrimonio. Come già accennato, il Codice Pelavicino, il volume pergamenaceo redatto alla fine del XIII secolo contenente 529 testi diversi per lo più in copia di varia natura e origine attinenti alla Chiesa di Luni, ha questo nome proprio dal vicario imperiale, ma la vera natura del legame è stata messa in luce solo di recente26. In sintesi, il volume è composto di varie parti, di cui le più corpose sono il liber magister e il liber iurium: il primo contiene in buona parte documenti privi di autenticazione notarile e collegati in senso lato alla gestione dei redditi; il secondo raccoglie invece documenti con sottoscrizione notarile riguardanti diritti e beni della curia. Il nucleo originario del liber magister, come dichiarato nella formula di autenticazione della copia a noi pervenuta, risaliva ai tempi di Uberto Pallavicino, anche se il testo presente nel codice non rappresenta più il contenuto di quel primo liber27.
Il copista, maestro Egidio, così lo nomina all’inizio dell’opera di copiatura:
Incipit liber, qui vocatur magister, possessionum, reddituum, proventuum et iurium episcopatus Lunensis28.
A tale frase segue la prima di diverse indagini (inquisitiones) volute dal vescovo Enrico da Fucecchio (1273-1296/97) per valutare l’insieme dei diritti e dei redditi della curia. A carta 48r. troviamo invece la nota di chiusura:
Iste liber vocatur magister, compositus et factus tempore domini Uberti Pelavisini, generalis vicarii in provincia Lunisana, de mandato et auctoritate ipsius, in quo nichil est additum vel diminutum nisi ut in ipso libro antiquo continetur, bona fide est scriptus et completus per predictum magistrum Egidium29.
Dalle due note di Egidio deduciamo che il liber era un oggetto unitario e ben riconoscibile all’interno dell’archivio vescovile: un volume, già noto ai contemporanei come magister, quindi “mastro, principale”, probabilmente perché il più importante dell’archivio, percepito da Egidio anche come antiquo, sebbene fossero trascorsi pochi decenni dalla sua prima redazione.
La prima descrizione sintetica dello scriba corrisponde effettivamente al contenuto di natura mista, in parte contabile (possessionum, reddituum, proventuum), in parte giuridica (iurium), ma in ogni caso a prevalente interesse economico-contabile. La seconda notazione, invece, sembra a una prima lettura palesemente contraddittoria: sebbene Egidio dichiari di aver copiato fedelmente il libro antiquo (in quo nichil est additum vel diminutum nisi ut in ipso libro antiquo continetur), i testi tràditi sono in gran parte stati composti dopo la fine del vicariato di Uberto e soprattutto dopo la consacrazione a vescovo di Enrico da Fucecchio (1273). Dato che Egidio era copista scrupoloso e attento, come dimostra la cura con cui copiò i signa notarili dei numerosi documenti del liber iurium, l’unica spiegazione logica è che il liber tenuto in mano da Egidio fosse formato da due parti distinte: la copertina, recante da qualche parte il titolo e la paternità dell’opera (liber magister compositus et factus tempore domini Uberti Pelavisini), e il contenuto, quest’ultimo creato ex novo proprio nel corso dell’episcopato di Enrico, dalla primavera del 1273 fino all’inizio del lavoro di Egidio, nel 1287. In sostanza il libro che il vescovo Enrico chiese ad Egidio di copiare non era più il liber magister originario redatto ai tempi del vicario Uberto Pallavicino, ma un volume nuovo, che del primo aveva certamente mantenuto il titolo e probabilmente anche la natura di registro dei redditi. Le analisi sui documenti contenuti del liber hannoinfatti permesso di riconoscere, ovviamente in via ipotetica, in una lista ricognitiva di censi promossa dal vescovo Enrico da Fucecchio nel 1273 traccia del perduto liber magister di Oberto Pelavicino. Si tratta di un lungo elenco di dichiarazioni di censo dove, a fianco di ogni nominativo, è indicato l’ammontare del canone in denaro e in naturae che, alle cc. 9r.-31v., presenta nominativi di soggetti attivi negli anni ’30 e ’40 del Duecento. Lontano dal restare un esperimento episodico nella gestione del patrimonio vescovile, il liber di Uberto Pallavicino fu, come dimostra lo stesso codice, motore di profondi cambiamenti per l’amministrazione del patrimonio e l’adozione di nuove pratiche scrittore da parte della curia vescovile. Il testo originario del liber fu probabilmente aggiornato e corretto già dal vescovo Guglielmo, mentre Enrico da Fucecchio lo adottò come uno degli strumenti principali di gestione dell’insieme dei suoi redditi, pur rinnovandone completamente il contenuto30.
La decennale assenza di Guglielmo dal soglio vescovile per prigionia o latitanza, le riforme amministrative promosse dall’imperatore, nonché i turbamenti provocati dai conflitti indebolirono ovviamente la signoria vescovile, rendendo i suoi domini vulnerabili nei confronti delle spinte autonomistiche interne e degli appetiti esterni. Non è qui il caso di indugiare nella narrazione minuziosa delle prime, che trovano negli scritti di Gioacchino Volpe e Mario Nobili letture ed analisi più che adeguate. Da questo punto di vista qualche novità è emersa casomai dalla nuova edizione del Codice Pelavicino, che ha consentito di definire meglio il grande sforzo messo in atto dal vescovo Guglielmo, pochi anni dopo la morte di Federico, per recuperare, mettere in bella copia e autenticare tutta la documentazione necessaria a comprovare le proprietà e diritti della chiesa di Luni31. Proprio da questa intensa pratica di scrittura e autenticazione riusciamo a capire anche il peso delle brame interne ed esterne su uno spazio che la vicenda federiciana aveva dimostrato essere strategico e delicato a un tempo.
Sul fronte ligure Genova si attivò per garantirsi la fedeltà di diverse località del golfo spezzino e Innocenzo IV appoggiò fortemente il nipote Niccolò Fieschi nel tentativo di organizzare tra Riviera, val di Vara e bassa val di Magra una vasta signoria familiare32. Guglielmo tornò ad agire proprio in collegamento a quest’ultima vicenda: nel 1252 il papa gli scrisse affinché aiutasse suo nipote ad entrare in possesso di alcuni beni e castelli nella diocesi di Luni, aiuto che il vescovo si rifiutò di fornire per almeno due anni33. Il vasto ma frammentato dominio del Fieschi, costituito dalla sommatoria di castelli e località per lo più acquistati dai signori locali, confluì poi interamente nelle mani del capoluogo ligure, che consolidò in questo modo enormemente la sua influenza sul Levante. Dal versante toscano si manifestò l’ovvio interesse di Lucca e Pisa, che appunto ebbero, ancora vivente l’imperatore, assegnate rispettivamente le provincie di Garfagnana e Lunigiana e che poi si alternarono a supporto del vescovo di Luni nella gestione della seconda. Proprio le autentiche e i passaggi in mundum conservati nel Codice Pelavicino, in cui di norma si nomina l’ufficiale che dà l’autorizzazione a procedere, permettono di valutare con discreta granularità l’avvicendamento delle due città nella gestione della provincia imperiale34.
Pisa mantenne la titolarità della provincia e la sua influenza sulla bassa Lunigiana dalla morte dell’imperatore fino alla pace con Firenze del 1256: furono vicari in Lunigiana pro comune Pisano un tale Benetto (1250), Ugolino Crivano (1252) e Alberto Malvicino (1253)35. Quando nel 1252 il vescovo ricevette la fedeltà degli Adelberti signori di Tivegna nella bassa Val di Vara, costoro si impegnarono contestualmente a non offendere il comune di Pisa e altro Pisano nel distretto di Tivegna e a garantire la sicurezza dei Pisani fino a quando costoro avrebbero governato la contrada di Lunigiana36.
Nel corso del 1256, in ragione dell’offensiva fiorentino-lucchese contro Pisa, maturò il passaggio di consegne della provincia di Lunigiana a Lucca: nel giugno i comuni di Sarzana e di Carrara strinsero patti tutt’altro che paritetici con questa città e nel luglio Sarzana cedette al Lucca ed al vescovo di Luni un terzo dei proventi della dogana del sale37. Il passaggio di mano della provincia dalla filoimperiale Pisa a Lucca era evidentemente andato a genio al vescovo Guglielmo, che tre anni dopo, pur in presenza di Gerarduccio Maluso vicario di Lunigiana pro communi Lucano, dichiarò senza esitazioni di agire sicut comes province a cui spettava la piena giurisdizione38.
Tra 1260 e 1265, anno in cui Pisa riprese il sopravvento, la situazione risulta più oscura: Bernabò Malaspina, che nel 1247 aveva guidato i Lunigianesi ribelli all’imperatore, nel 1260 era passato nuovamente al fronte ghibellino in forza anche del matrimonio con Maria di Antiochia, nipote di Federico II39. Questo pare lo abbia reso anche vicario in illis partibus, come asserisce una lettera di papa di Clemente IV al vescovo di Luni, scritta però cinque anni dopo la sua morte40. Non è chiaro quindi fino a che punto e in quali circostanze egli abbia effettivamente esercitato il ruolo vicariale: certo si mosse a danno degli interessi vescovili occupando – come dice la lettera – castelli e ville di pertinenza vescovile. I suoi eredi – nonostante Bernabò avesse dichiarato per testamento di voler restituire il maltolto – pensarono fosse più opportuno affidarsi al comune di Pisa trasferendo a questa città i possedimenti contesi41. La decisione, che la lettera consente di porre intorno a 1267, è di poco successiva al momento in cui Pisa riuscì effettivamente a recuperare lo spazio lunigianese ai danni di Lucca (1265)42 e coincide con le attestazioni del nobile pisano Raineri Gualterotti vicario nella provincia di Lunigiana a nome di Pisa, assente in loco ma sostituito dal giudice Gotefredo43. Proprio nel corso del 1267 si verificò tuttavia un nuovo passaggio di mano, grazie all’intervento di Carlo d’Angiò44. Nel biennio 1268-69 la vicaria sembra obbedire al solo vescovo Guglielmo – i vicari agiscono infatti solo pro venerabili patre domino Guilielmo Lunensi episcopo -ma gli uffici sono popolati da personaggi riconducibili quasi interamente all’ambito lucchese: Lanfredo Bonaccorsi (vicario), Normannino de Bernarduciis (giudice), Baldinotto Caldovillani de porticu civitatis Lucane (giudice e notaio) e Aliotto del fu Marroncino (notaio)45. Unica eccezione il vicario del1269, il marchese Moroello Malaspina figlio di Corrado l’Antico, sotto il quale venne redatto il registro delle cause46. Dal 1270 fino al 1272 il Comune di Lucca è nuovamente menzionato come ente co-titolare della vicaria47; ma in seguito, in concomitanza con l’elezione a vescovo di Enrico da Fucecchio (1273), l’ufficio sembra confluire nelle sole mani del presule, con ufficiali provenienti da più contesti vicini. Furono infatti vicari un Enrico dottore in legge originario probabilmente di Falcinello, Filippo Riccardi da Lucca, Bonaccorso Lanfredi da Lucca, Sartorio Salamoncelli da Lucca, Pietro Enreghini di Pontremoli (affiancato da un giudice di Parma)48. A questo insieme composito e vario di ufficiali della vicaria – vicari e consiglieri – istituitia nnualmente, si riferì efficacemente il vescovo Enrico nel 1275 quando specificò nel proemio di una copia del liber magister che si trattava di un testo di più autori: Oberto Pallavicino, il vescovo Gugliemo, laici e chierici et precipue per vicarios et consiliarios provincie Lunisane successive institutos annis singulis approbatus49.
A prescindere dall’alternarsi degli enti deputati alla nomina dei vicari, che riassumo sinteticamente nella tabella seguente, la comparazione dei documenti consente di estrapolare qualche ulteriore informazione su questo ufficio, che, come dichiarato dal proemio prima citato, aveva durata annuale. I vicari avevano una sede ufficiale a Sarzana e si facevano aiutare per l’espletamento dei loro compiti quasi sempre da giudici di loro scelta, in alcuni casi anche da notai di fiducia oltre che da corrieri, nunzi e tesorieri dedicati50. Esercitavano la giustizia con la relativa registrazione delle cause, conservavano la documentazione della curia, autorizzavano le pratiche di autenticazione documentaria, approvavano il libro mastro della curia di Luni, redigevano gli elenchi dei sergenti e curavano la riscossione delle tasse con relativa redazione di liste de fuochi. Sulla redazione e conservazione delle scritture della curia i documenti fanno percepire una realtà ancora non codificata e certamente dinamica: abbiamo infatti un liber causarum facto et composito al tempo del vicariato di Moroello Malaspina, un «libro dei precetti» composto al tempo di Sartorio Salamoncelli (anteriore 1285), un «libro straordinario dei precetti e altre scritture straordinarie» del vicario Pietro Errighini di Pontremoli, sotto cui venne redatto anche un «libro dei fumanti»51. A dedurre dal solo titolo i libri dei precetti riguardavano l’amministrazione civile e contenevano probabilmente norme e ordinanze espresse dall’autorità. Nel volume più tardo era contenuta almeno un’ingiunzione di pagamento52; invece nel più antico «libro straordinario» – l’intestazione denuncia uno stato di ancora scarsa definizione di funzioni – ci sono rimasti il giuramento di fedeltà di un comune rurale e la cerna – il corpo di fanteria reclutato dal vescovo nei propri domini – del 127953. Appartiene al medesimo anno anche il «libro dei fumanti» del vicariato di Lunigiana: un registro che – a giudicare dal breve estratto che si è conservato – pare presentasse solo i nomi dei capifamiglia divisi per località54. Si tratta di un testo di carattere fiscale, che ha ben pochi riscontri in ambiente vescovile e anche signorile per il periodo indicato55. La presenza di un libro di fuochi, e non di un estimo, indica un sistema fiscale ancora molto caratterizzato dalla tassazione indiretta e dal ricorso all’imposizione diretta solo per motivazioni straordinarie e peculiari (ad es. la guerra) imputate all’intera comunità quale soggetto fiscale collettivo56. Le ragioni militari potrebbero essere effettivamente all’origine di questo libro, redatto in un momento di estrema tensione militare tra il vescovo, un ramo dei Malaspina e ilcomune di Genova, usato probabilmente come base per il reclutamento di soldati dalle comunità (la cerna). La vicenda è quella relativa alla presa di possesso operata dal vescovo di Luni nel 1279 del castello della Brina, in seguito contestata dai Malaspina e rimasta in sospeso persino nella celebre pace di Dante del 130657. Nel corso del febbraio 1279, tra i diversi atti che avrebbero dovuto il passaggio del castello al presule, si trova anche il giuramento di fedeltà del console del comune rurale, prestato a condizione che gli abitanti venissero assolti dal pagamento dei 26 denari imperiali chepagavano annualmente «ai vicari imperiali in Toscana o ai vicari dellachiesa romana e a quelli di Carlo d’Angiò re di Sicilia nella vicaria di Toscana o quella di Lunigiana o nelle parti di Lunigiana»58. Una clausola che ci fa ben comprendere quanto la gestione dell’ufficio fosse soggetta a continui avvicendamenti, che avevano reso estremamente difficoltosa l’amministrazione del territorio.
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Fig. 12 Appartenenza dei vicari della Provincia di Lunigiana (dati tratti dal Codice Pelavicino e dal Registrum Vetus del Comune diSarzana) |
L’avvicendamento istituzionale e amministrativo nella vicaria di Lunigiana favorì un poco il rafforzamento della signoria vescovile, grazie anche all’azione di due presuli particolarmente energici e determinati: Guglielmo ed Enrico da Fucecchio. Il primo approfittò dei continui cambi di bandiera per seguire una costante strategia di recupero e ripristino dei diritti signorili, appoggiandosi per lo più alla parte lucchese e lucrando alla fine sul progressivo disinteresse mostrato da Pisa e da Lucca nella gestione dell’ufficio. Lo si ricava non solo dai riferimenti formali prima elencati, ma anche dalle frequenti attestazioni di assenza del vicario stesso, sostituito neisuoi compiti da giudici e notai59. Si nota, inoltre, che fu nei periodi di passaggio, o quando la vicaria pare maggiormente far capo al presule, che il vescovo emanò testi di tipo statutario: le costituzioni di Nicola e Ortonovo, dove Guglielmo dichiara di agire sicut comes province (1259), i capitoli aggiunti agli statuti di Ponzanello (1259) e di Carrara (1260), gli statuti di Sarzana e della locale arte dei beccai (1269)60.
Per quanto riguarda Enrico da Fucecchio, sappiamo che era personaggio estraneo al capitolo della cattedrale e di elevato profilo culturale. Nel codice Enrico è definito magister canonico di Sant’Omero nella diocesi di Thérouanne, effettivamente attestato nella documentazione di quel capitolo come sottoscrittore in due atti del 126961. Uno studio di prossima pubblicazione ha rivelato che, nella seconda metà del XIII secolo, insieme ad Enrico da Fucecchio vivevano in quella canonica altri “italiani” quali Adinolfo d’Anagni, un non meglio identificato Enrico da Pontremoli (de Ponte Tremulo) e Pietro di Santa Susanna62. La presenza di Adinolfo d’Anagni e il titolo vantato da Enrico di magister fanno pensare che i due fossero accomunati dalla frequentazione dell’università di Parigi e dalla vicinanza con gli ambienti della curia romana. Adinolfo era infatti nipote di papa Gregorio IX: detentore di numerose prebende in Francia e in Inghilterra, cappellano pontificio dal 1243 fino al 1268, quando insegnò teologia nella stessa università dove aveva già studiato e dove molto probabilmente lo stesso Enrico da Fucecchio ottenne il titolo di magister63. Il pontefice che nominò Enrico fu Gregorio X, al secolo Tedaldo Visconti, che, prima di diventare pontefice, spese gran parte parte della sua vita in area francese: tra 1239 e 1240 canonico a Lione e arcidiacono nella diocesi di Liegi, tra 1248 e 1252 frequentò anch’egli l’università di Parigi; rientrò di nuovo nel regno francese – dopo una missione in Inghilterra -tra 1269 e 1270, prima di partire per la Terrasanta dove avrebbe conosciuto i fratelli Polo e sarebbe stato raggiunto dalla notizia della nomina a pontefice64. Anche se non possiamo sapere con precisione quando e come le vite di questi tre personaggi – Adinolfo,d’Anagni, Enrico da Fucecchio e Tedaldo Visconti – si incrociarono, è più che lecito vedere i nodi di queste relazioni proprio nell’ateneo parigino e nella canonica di Sant’Omero, oltre che – in seguito – nella stessa curia romana. È più che plausibile, infatti, che proprio durante il soggiorno di Tedaldo o a Parigi o a Liegi sia maturata la conoscenzatra tra il futuro Gregorio X e il magister Enrico da Fucecchio, maestro nelle arti e «dotato in conoscenza» oltre che «saggio per ciò che attiene alla materia spirituale e prudente nelle questioni terrene», come recita la lettera con cui il pontefice annunciò al comune di Lucca di aver consacrato Enrico vescovo di Luni il 4 aprile 127365.
La gestione dell’episcopio e del patrimonio della curia di Luni da parte di Enrico da Fucecchio fu estremamente energica e determinata66. All’interno del Codice Pelavicino si trova un documento unico nel suo genere, un tempo etichettato come sua “autobiografia” e oggi più correttamente inteso come un resoconto di carattere prevalentemente economico, elencante le spese affrontate dal presule per il governo temporale del comitato lunense (1273-1287)67. Ogni singola voce enuncia con puntualità l’importo della somma di volta in volta impiegata per recuperare terre e castelli sottratti al controllo vescovile, per acquisire vassalli, per erigere o restaurare fortificazioni e palazzi, secondo un disegno politico di ampio respiro. Il tono in apparenza distaccato lascia trasparire in controluce una vena di soddisfazione peri risultati ottenuti, come dimostra l’impiego di termini come utilitas, magna utilitas, magnum emolumentum, honor, a rimarcare le ricadute positive degli interventi sulla situazione della diocesi. Non sono taciute inoltre le contrapposizioni con gruppi signorili laici, gli homines di Sarzana o il comune di Lucca, che rendono il testo a un tempo pragmatico e politico68.Proprio relativamente a Lucca troviamo una dichiarazione preziosa sull’ultimo periodo di gestione della vicaria della provincia di Lunigiana, che conferma il ruolo egemone del vescovo: «abbiamo espulso da tutto l’episcopato di Luni il comune e gli uomini di Lucca, che rivendicavano il diritto e la giurisdizione episcopale su tutte le terre dell’episcopato, ponendovi annualmente vicari, giudici, notai e altri rettori a loro volontà, oltre che un terzo della dogana del sale»69. Tale situazione era stata trovata dal vescovo all’inizio del mandato ed era stata risolta con l’esborso di più di mille lire in denari imperiali, come dimostra del resto l’assenza di vicari pro comune Lucano dal 1273, anche se ancora nel 1286 il papa dovette intervenire per condannare l’occupazione dei Lucchesi di domini vescovili tramite «podestà, vicario e altri ufficiali che esercitavano la giurisdizione a nome loro»70.
Contemporaneamente all’ufficio di vicario della provincia per conto dell’imperatore, Guglielmo ed Enrico riuscirono a mantenere vivo anche il titolo comitale, che gli derivava dalla medesima autorità ma che, nel contesto, aveva un significato e un portato politico del tutto diverso. Quando ho esaminato l’uso del titolo di comes Lunensi comitatus per i secoli XII e XIII, ho sottolineato come le attestazioni – sempre poco rilevanti – aumentino lievemente nei valori assoluti con Guglielmo ed Enrico da Fucecchio: 7 su 225 per Guglielmo (5,33 %), 7 su 63 per Enrico (11,11 %). Relativamente al primo, a parte una locazione in cui si nomina anche il comitatus71, si tratta sempre di atti in cui la menzione del titolo rientra nella peculiare tipologia dell’azione giuridica che “eredita” il riferimento al comitato dalla documentazione precedente e/o attiene a materia specificamente feudale: due documenti con i Bianchi di Erberia riguardanti le garanzie verso icastellani di Moncigoli divisi tra i due co-signori; la concessione agli uomini di Santo Stefano di tenere mercato; la conferma ai consoli di Marciaso di quanto era già stato concesso in feudo dal predecessore72. Per ciò che attiene Enrico le sparute menzioni riguardano l’incipit e la chiusura dello stesso Codice Pelavicino, la memoria del perduto privilegio di Rodolfo I re dei Romani riguardante il diritto di battere moneta e una dichiarazione di bene tenuto in feudo73(fig. 13).
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Fig. 13 Attestazioni del titolo di vescovo conte in valorepercentuale sull’insieme dei documenti di ogni singolo vescovo (dati tratti dal Codice Pelavicino) |
In sostanza i due grandi esponenti della stagione post federiciana, pur entrambi impegnati strenuamente nel recupero e nel rafforzamento dei diritti e delle prerogative della signoria vescovile e pur non dimenticando di essere conti del comitato di Luni per diritto imperiale, non usarono mai il titolo come strumento strategico. Una siffatta operazione, in una fase contraddistinta da aspre lotte tra guelfi e ghibellini, tra fazioni dei diversi schieramenti e da interessi plurimi nei confronti della signoria vescovile, sarebbe stata d’altra parte poco praticabile, trovandosi i beni signorili entro un quadro amministrativo ancora profondamente plasmato dalle riforme federiciane.
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