II.8 – Lungo la strada
E. Salvatori, Il fegato del vescovo – II.8 – Lungo la strada
La medesima geografia può essere guardata da un altro punto di vista, a un tempo interno, trasversale ed esterno alle dinamiche dei dominati signorili: la strada. Parlare della Lunigiana medievale significa infatti considerare con attenzione la dimensione della viabilità, che in questo lembo di terra si incrociava con un tratto particolarmente importante e delicato della Francigena, quello che dall’attuale passo della Cisa (il medievale monte Bardone) arrivava allo sbocco a mare di Bocca di Magra, caratterizzato a sua volta da più strutture di approdo,e che deviava verso sud-est all’altezza di Sarzana per portarsi in Versilia e nel resto della Toscana. Un tratto relativamente breve, ma anche quasi obbligato per alcune categorie di viaggiatori (eserciti, mercanti e pellegrini forestieri), sebbene ricco di diramazioni e attraversamenti montani per i frequentatori più esperti1. «Porta e chiave della Toscana», estremamente utile per andare «facilmente e comodamente… da Piacenza a Pisa»2, l’intera zona era di importanza centrale nella politica delle comunicazioni. Lo era per l’autorità imperiale, interessata ad avere aperto un agevole passaggio verso l’Italia centrale e meridionale; lo era altresì per i mercanti, in particolare piacentini, parmensi, pisani e lucchesi, impegnati nel trasporto delle merci dal litorale tirrenico alla Lombardia3.
Ma quale geografia del potere si può disegnare partendo dal punto di vista della strada? «Il rapporto tra potere e vie di comunicazione» sostiene giustamente Giuseppe Sergi «è un problema da scomporre: occorre tener conto dell’importanza e delle qualità diverse dei percorsi, della diversa natura dei poteri che intervengono sul territorio, della politica stradale da essi perseguita… Non soltanto i poteri medievali agiscono sulla rete viaria, ma anche la rete viaria condiziona quei poteri, in più di un caso plasmandoli e mutandone i connotati»4. Proviamo quindi ad articolare la risposta guardando quindi alla natura dei poteri che intervenivano o ambivano a intervenire sulla strada: i signori locali, i comuni cittadini più direttamente interessati al passaggio sulla Francigena (Genova, Lucca, Pisa) e l’Impero.
Dal punto di vista dei dominati locali la geografia del loro rapporto con la strada passa attraverso l’individuazione dei pedaggi e l’analisi di quello che poteva essere il loro peso, economico e politico. Una loro mappatura per il XII secolo che evidenzi la rispettiva appartenenza -pur in un contesto ovviamente dinamico – conferma quanto già emerso con la schedatura dei domini signorili: ossia il controllo del vescovo sulla Francigena da Carrara a Sarzana (Bassa Lunigiana) e una spartizione della porzione restante tra due famiglie signorili e il comune di Pontremoli, con un punto di frizione al contatto tra le due aree dato dal crocevia di Santo Stefano Magra. In particolare, nel XII secolo sono attestati tre luoghi di pedaggio in mano al vescovo di Luni: Luni stessa, Sarzana (già nel 1180 in parte riscosso dal comune locale) e la”dogana” di Avenza5. Federico I conferma invece nel 1164 il pedaggio riscosso dai Malaspina a Malnido (ora Villafranca di Lunigiana), concede nel 1167 quello di Pontremoli agli uomini del luogo e assegna nel 1175 quello raccolto a Santo Stefano a Guglielmo Bianco da Vezzano6. I privilegi imperiali quasi certamente confermavano diritti che erano già in essere, anche se nella concessione a Guglielmo da Vezzano si può leggere un rafforzamento di quel peculiare personaggio all’interno della sua compagine familiare7. Tenendo conto nella mappa anche della Riviera di Levante, alla fine del XII secolo i signori di Lagneto e Celasco risultano avere ancora il controllo del pedaggio raccolto ai Lucchesi8.
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Fig. 11. Punti di pedaggio e titolari dei diritti nel XII secolo |
In qualche caso i documenti forniscono informazioni sul peso economico dei rispettivi tributi, che evidenziano il rilievo maggiore della Francigena nei confronti delle arterie minori: nel 1167 a Pontremoli si raccoglievano al passaggio 14 denari, per un valore annuale di 50 lire, che in quell’anno l’imperatore trasformò in cento uomini per quattro mesi9; a Santo Stefano la tassa era invece di 12 denari imperiali per soma (carico posto sul dorso degli animali) e 6 per fardello (trasportato da persone)10; mentre per il podestà signorile di Lagneto e Celasco un anno di pedaggio tolto ai Lucchesi corrispondeva a sole 10 lire di Genovini11.
Non abbiamo ovviamente dato alcuno sulla frequenza dei passaggi, l’unico che ci potrebbe fornire una stima utile delle entrate. Non è mai espresso con chiarezza nemmeno il luogo preciso di riscossione. Per i signori di Lagneto e Celasco poteva effettivamente collocarsi nell’ambito del distretto castrense, che ci è ignoto ma che controllava certamente un tratto del Vara e gli attraversamenti transappenninici che collegavano la riviera di Levante all’entroterra. Il pedaggio di Pontremoli era probabilmente riscosso nel borgo; il diploma ci fornisce però anche l’areale del distretto di competenza, che corrispondeva al bacino imbrifero del Magra fino circa all’altezza di ponte Teglia. Il tratto di strada successivo verso il mare doveva presumibilmente far capo ai Malaspina con il punto di riscossione di Malnido. Per i da Vezzano la possibilità di esigere il pedaggio in burgo sancti Stephani vel a loco illo usque Sarzanum, ubi pocius per stratam voluerit colligendos ci indica esattamente quale segmento stradale era in quel momento avvertito come pertinente a questi signori; mentre da Sarzana all’Avenza ci troviamo decisamente sulla porzione vescovile della strada12.
La schematica quadripartizione della Francigena lunigianese del XII secolo (Pontremoli, Malaspina, Da Vezzano, Vescovo/Sarzana) si complica e si articola nel secolo successivo in parte per le dinamiche tra i potentati e in parte grazie alla maggiore abbondanza di fonti, che tuttavia sono per lo più di matrice vescovile e illuminano quindi quasi esclusivamente la porzione meridionale del percorso.
Non è certo questa la sede idonea per approfondire il peso economico dei pedaggi entro la gestione economica della signoria vescovile del XIII secolo, che oggi può essere proficuamente studiata grazie alla prima edizione o riedizione aggiornata di importantissimi documenti relativi alla gestione dei censi e redditi della curia13. Si può tuttavia notare una evidente moltiplicazione e specializzazione dei punti di raccolta rispetto al quadro attestato nel secolo precedente.
Secondo un’inchiesta condotta dopo il 1273, sul fiume Magra si riscuotevano – non ci è dato sapere a che altezza – 4 denari imperiali per soma su asino, che salivano a 6 se si trattava di mulo, 18 denari per ogni “peso” di formaggio; 1 Genovino per mina di sale; 1 Imperiale per staio di biada14. Valori differenti riporta un documento di soli quattro anni successivo relativo ad altri pedaggi raccolti sempre sul Magra, ma nel porto di San Maurizio e ad Ameglia. Qui incontriamo una minuziosa elencazione di introiti per tipologie di merci e di mezzi di trasporto con i rispettivi valori: barche a uno o due alberi, compravendite di sale, frumento, biada, tessuti operati (pignolati), panni di lana, cuoio, cotone e lino, cerati, lana lavata, vello, piombo, ferro, acciaio, panni di diversa qualità, armi e miele, contenitori di varie misure, forme e materiale, carni salate, lardo, olio, sugna, vino, cavalli, buoi, asini, porci e ovini, materiali da costruzione in pietra e legno, parti di imbarcazione15. La situazione a Sarzana, tappa a metà strada tra Santo Stefano e Avenza, risulta più complicata da analizzare dal fatto che si raccoglievano, oltre al pedaggio consueto, altre tasse relative al mercato, al pascolo e all’uso delle foreste, anche il pedaggio sul sale, che nella prima metà del Duecento fruttava sei denari imperiali a moggio16. I diritti su tutte queste entrate sono inoltre a lungo contesi tra il borgo di Sarzana e il vescovo, che da parte sua, beneficia i suoi vassalli con quote degli introiti17. A Gragnana presso Carrara il pedaggio sembra riguardare solo il bestiame in transumanza dalle Apuane al piano in direzione di Pisa, per il quale si chiedeva un “taglio” di formaggio e 12 denari a ogni pastore, più 2 denari per ogni bovino o asino, 1 denaro per ciascun porco e 1 denaro per soma di merci varie18. Inoltre, parte di un pedaggio raccolto forse a Falcinello fruttava annualmente al vescovo un cavallo19. Erano invece i Malaspina a gestire il pedaggio di Madrignano, sulla strada che dal Magra portava verso Genova, ma di questo punto di raccolta veniamo a sapere quando la famiglia ha già grosse difficoltà di gestione, tanto da volerlo vendere: lo acquista nel 1259 Niccolò Fieschi salvo poi doverlo rivendere a Genova nel 127620.
Particolarmente interessante la questione relativa a Santo Stefano, il cui pedaggio in un documento del 1277 appare far capo al vescovo e non ai da Vezzano ed essere raccolto in più punti: nel borgo omonimo e nell’abitato di mezzacosta di Caprigliola, entrambi sulla Francigena21. Dal testo abbiamo la misura della soma dricta – corrispondente alla bona – del peso di 500 libbre (circa 200 kg) e del valore di 18 denari, che trasportava panni di diversa qualità e provenienza; lo stesso dazio valeva per la balla o soma lucchese o soma di altre tipologie di merci. Per altri tessuti di minor pregio – lana non lavata, sardesca, povera – si contavano invece tre some come se fossero due, e il medesimo sconto si faceva per il pellame grosso, cuoiame, carni salate, ferro, acciaio, piombo, miele, lino e canapa. Tra le altre merci di passaggio si elencano, con le rispettive tasse, formaggio di Messina o di Sardegna, olio, vino, legno di diverse pezzature e animali (equini, bovini, ovini, suini)22. In altra fonte, si presume di poco anteriore, le tasse raccolte nel medesimo luogo risultano diverse – 10 denari imperiali e 2 di Parma per ogni soma “buona” che conta come una carica, un torsello o quattro some “vili”, 2 soldi di imperiali (quindi 24 denari) per ogni cento bestie “di forestieri” a cui si aggiungono le entrate per il diritto di pascolare articolate per tipologia di animale23. Merci e valori corrispondenti si ritrovano, con qualche piccola variazione, anche nel pedaggio di Avenza, ossia all’altro capo della Francigena vescovile24.
La documentazione lunigianese duecentesca rivela, quindi, una crescente specializzazione e articolazione dei dazi in relazione all’arricchirsi dell’assortimento delle merci e allo specializzarsi dei punti di raccolta: materiale da costruzione, metalli, contenitori e armi arrivano principalmente negli approdi marittimo-fluviali, armenti lungo i percorsi di transumanza; ampia varietà di tessuti e fibre tessili lungo la Francigena. Inoltre, le variazioni delle imposte indirette fanno supporre, anche se non siamo mai certi che i documenti si riferiscano sempre esattamente al medesimo punto di raccolta, che le tariffe fossero tutt’altro che stabili. Si nota infine l’estendersi del controllo del vescovo fino a Santo Stefano Magra, con l’erosione di un tratto di strada di pertinenza dei da Vezzano, dove nella seconda metà del Duecento matura lo scontro.
Nel 1167 l’imperatore aveva assegnato il diritto di pedaggio a Santo Stefano a Guglielmo Bianco; nel 1202 il figlio lo cedette per un sesto al borgo di Sarzana in cambio di 60 lire imperiali25.Circa quarant’anni dopo il nipote Rolando ottenne dall’imperatore Federico II la conferma del medesimo diritto, presente (e quindi consenziente) lo stesso vescovo di Luni Guglielmo. In quel momento, tuttavia, il presule si trovava probabilmente impossibilitato ad opporsi, trovandosi in una posizione critica entro la strategia attuata dall’imperatore per il nord Italia: non a caso venne di lì a poco fatto prigioniero e rimase distante dal soglio pontificio fino alla morte di Federico II26. Il ritorno in attività del presule inaugurò quindi una faticosa ma convinta opera di recupero dei diritti della curia vescovile, opera che fu pervicacemente continuata dal successore, Enrico da Fucecchio. Fu in questo contesto di “recupero” che probabilmente si determinò il tentativo del vescovo di Luni di estenderei diritti sulla Romea-Francigena fino a Santo Stefano e il conseguente contrasto con i da Vezzano.
Il documento che meglio illustra la contesa è purtroppo solo di parte vescovile e nulla ci dice sulle ragioni della controparte: si tratta infatti di una lista di testimonianze fatte raccogliere dal vescovo Enrico da Fucecchio il 28 luglio 1279 per confortare le sue posizioni in sede di giudizio relativamente al pedaggio riscosso presso l’ospedale di Scognavarano contro gli uomini e il comune di Vezzano che pretendevano di averne la giurisdizione27. La struttura assistenziale si trovava vicino all’attuale Ponzano Inferiore, tra Santo Stefano e Sarzana, presso due vie di comunicazione a carattere sovra-regionale, la Francigena-Romea, nel tratto che andava da Aulla a Sarzana lungo la riva sinistra del Magra, e una seconda arteria che attraversava il fiume, raggiungeva Ceparana e proseguiva lungo la riva sinistra del Vara in direzione nord ovest28.
Il primo teste, Paganino del fu Benedetto di Santo Stefano, sostiene che almeno da quarant’anni – quindi da prima dell’arrivo in Lunigiana di Federico II – erano i funzionari vescovili ad avere piena giurisdizione sulla strada. La dimostrazione sta nel fatto che essi la custodiscono, ne riscuotono i pedaggi, catturano i criminali, tutelano i mercanti e le loro mercanzie e, nel caso che questi ultimi siano danneggiati, si adoperano affinché il maltolto sia restituito o dagli stessi malfattori oppure dagli uomini dei paesi vicini alla strada o di sua pertinenza29. Sono elencati in questates timonianza il diritti / doveri che il signore doveva essere in grado di esercitare “sulla strada” per rivendicarne la giurisdizione: riscossione del pedaggio, tutela per i viandanti con restituzione del maltolto o riparazione del danno. Paganino rafforza la sua dichiarazione raccontando due episodi specifici: quando un corriere forestiero venne derubato presso Montedivalli, furono gli uomini di Bolano ad essere costretti dal vescovo e dal suo vicario a restituire la refurtiva. Il vicario del vescovo trattenne e punì gli uomini di Santo Stefano inc onseguenza della morte – si presume violenta – di un bambino, avvenuta proprio presso l’ospedale, non essendo riuscito a individuare il malfattore dopo un’indagine di due giorni30. Un secondo teste, Guglielmo del fu Alamanno di Santo Stefano, racconta invece di quando Vivaldo Lamberti di Vezzano derubò alcuni mercanti pisani e, per reazione, il vescovo organizzò una vera e propria spedizione punitiva contro i Vezzanesi, che restituirono la refurtiva. Un’altra volta il responsabile fu invece il dominus Ramondino da Vezzano, che assalì mercanti stranieri togliendo loro argento e sete, per poi restituire il tutto dietro ordine del vescovo Marzucco con tanto di misurazione del maltolto.
Interessante il rilievo che i testimoni danno, oltre che al pedaggio e al mantenimento dell’ordine, anche alla manutenzione. Paganino dichiara infatti di aver visto far restaurare dal vescovo le due vie che si incrociavano presso l’ospedale senza che ci fosse alcuna protesta; dal canto loro i Vezzanesi, incalza il teste Guglielmo, non si fecero mai carico di questa particolare responsabilità che era dovuta dalle comunità del vescovo che avevano la strada entro il loro distretto. I lavori di sistemazione dei percorsi ci forniscono anche l’areale che era considerato dai testimoni di pertinenza vescovile e che, pur con l’incertezza data da toponimi di non facile collocazione, andava da Aulla a Sarzana e dall’ospedale di Scognavarano fino a Madrignano31.
A dar fiducia alle testimonianze, i da Vezzano e i loro uomini sembrano reclamare un solo diritto, quello di riscuotere il pedaggio, al punto di agire con violenza per ottenerlo. Tuttavia, è opportuno notare non solo che non possediamo la lista delle testimonianze della controparte, ma anche che i presunti atti criminosi citati -probabilmente finalizzati a rivendicare la supremazia sullo snodo – si affiancano raccolte apparentemente “regolari”. Il teste Guglielmino vide esigere il pedaggio da Federico di Fabiano a nome del comune di Vezzano da cui l’aveva acquistato; per Alcherotto furono invece gli uomini di Vezzano a farlo e a venire poi “licenziati” dal vescovo.
Entrambi questi episodi si collocano però cronologicamente più vicini al momento della redazione dell’atto – episcopati di Guglielmo (1227/28-1268) ed Enrico (1273-1295/96) – rispetto a quelli caratterizzati invece dall’esercizio della violenza, ascrivibili alvescovo Marzucco (1213-1221). In sostanza sembra che il tratto di strada conteso sia stato originariamente prerogativa dei da Vezzano per privilegio imperiale, ma da costoro probabilmente non controllato con continuità e rigore nei primi decenni del Duecento come si deduce dalla vendita di parte del pedaggio a Sarzana (1202) e dagli episodi di polizia promossi dal vescovo Marzucco, che a sua volta potrebbe usato strumentalmente l’acquisto di Sarzana per estendere la sua porzione di strada. La crisi dell’episcopato scatenata dall’arrivo di Federico II e dalla latitanza del vescovo Guglielmo avrebbe però rimesso tutto in discussione, rendendo complicata e contesa la “riappropriazione” dei diritti di pedaggio da parte dell’episcopato dopo la morte dell’imperatore.
Su questo elevato dinamismo interno, dovuto ai cambiamenti di peso politico dei poteri che si affacciavano sulla strada e dal progressivo aumento dei traffici, agivano tuttavia anche forze esterne di rilievo diverso: le città più interessate al percorso (Genova, Pisa, Lucca, Parma, Piacenza, Cremona, Milano) e l’impero. Anche se entrambe le tipologie di poteri puntavano a garantirsi la percorribilità della Francigena lunigianese e sue diramazioni in piena sicurezza, le rispettive strategie appaiono differenti.
Come messo in luce da Ferdinand Opll «La politica itinerante del sovrano nasceva … dal bisogno di trovarsi sul posto tutte le volte in cui egli voleva dar prova della propria autorità. Una disamina dell’itinerario dell’Imperatore – inteso come la summa di tutti i viaggi connessi all’esercizio della sua sovranità – acquista dunque una superiore valenza proprio perché in esso è possibile cogliere il riflesso delle sue attività di governo all’interno di uno spazio – per così dire – circoscritto»32. In altri termini comprendere l’itinerario dell’imperatore e valutare le azioni attuate per percorrerlo ci consente di valutare un aspetto fondamentale della sua strategia politica e la capacità contrattuale dei poteri che incontrava sulla strada, nei confronti della quale egli contrapponeva una forza per lo più militare ed episodica. I comuni cittadini non avevano le medesime necessità di spostamento su un ampio raggio di azione, ma dovevano garantire un transito sicuro e stabile ai propri abitanti, soprattutto ai mercanti, e, se possibile, anche a condizioni economiche favorevoli. La loro capacità contrattuale era prevalentemente economica e beneficiava di un altro vantaggio di rilievo: una migliore conoscenza della controparte e dei luoghi.
Così le città, anche se talvolta giocavano la carta del privilegio, di norma prediligevano gli accordi e le convenzioni con i poteri che avevano giurisdizione sul percorso stradale, non di rado ponendosi anche come elementi più o meno stabili di supporto per dirimere le contese che sorgevano tra loro. L’impero doveva agire invece rapidamente e a fronte di una consapevolezza ridotta delle dinamiche locali; il passaggio dell’imperatore – sebbene di rilevo – era temporaneo e di questo i dominati locali sovente ne approfittavano.
Alla fine dell’XI secolo Lucca ottenne da Enrico IV due diplomi, tra le varie disposizioni il primo (1081) libera i cittadini da ogni tassa di mercato sulla strada da Pavia a Roma; il secondo (1084) arricchisce il panorama di snodi e percorsi da tutelare: il Serchio, Motrone e il tratto che va da Luni a Lucca33. Anche se è probabileche l’aggiunta sia frutto di una interpolazione successiva finalizzata a condizionare la conferma di Lotario III del 113334, è evidente l’importanza crescente che tra XI e XII secolo stavano acquisendo per Lucca tutti i percorsi stradali, fluviali e marittimi: ne è prova il famoso arbitrato del 1124 che ha dato il titolo a questo volume. In quella occasione 60 Lucchesi, tra cui i consoli, i notabili e vari sapienti, decisero in qualità arbitri chi potesse incastellare il monte Caprione, un promontorio boscoso tra la foce del Magra e il Golfo della Spezia. La questione della “viabilità” nell’arbitrato non è mai menzionata, ma è certamente sottintesa: il promontorio era infatti un’area chiave dal punto di vista economico e logistico per la bassa Lunigiana: controllava la foce del Magra con i relativi approdi, da cui si dipartivano diverse strade, prima fra tutte la Francigena, proprio quella che i mercanti che da Luni si recavano a Lucca dovevano percorrere senza essere ostacolati o deviati per privilegio imperiale. Agli inizi del Duecento Lucca riuscì a concertare una serie di accordi con i principali dominati lunigianesi proprio al fine di liberare la strada, che confermano la quadripartizione della Francigena nel suo tratto lunigianese: Pontremoli, il vescovo di Luni Gualterio, Gualterotto da Vezzano e Guglielmo Malaspina giurarono de stradac ustodienda entro i loro dominio e di non chiedere pedaggio ai Lucchesi35 Sul fronte genovese, pontremolese e piacentino troviamo soluzioni più meno analoghe, che vedono per lo più stabilire accordi con i dominati e i poteri posti sulla strada al fine di mantenerla libera e sicura. Così alla metà del XII secolo i Genovesi promisero agli abitanti di Pontremoli che i signori di Lavagna, Passano e Lagneto avrebbero prestato giuramento di mantenere libere e sicure da ogni molestia agli averi e alle persone dei viandanti le strade che da Pontremoli conducevano a Genova, euntes Ianuam vel redeuntes inde per viam de Pontremulo usque ad insulam et ab insula usque Ianuam et similiter euntes et redeuntes per viam que vadit in Macram et a Macra usque Ianuam36. Nel 1168 il giuramento di Opizzo e Moruello Malaspina all’arcivescovo di Genova prevedeva che tutte le strade che attraversavano i domini malaspiniani in direzione di Genova rimanessero libere e sicure, salvo nel caso di guerra con le città lombarde37; simile l’accordo che i Malaspina siglarono con Piacenza e Pontremoli nella cartula pacis et concordie del 119438. Traccia di accordi delle città lombarde col vescovo di Luni la troviamo infine nel già citato documento del 28 luglio 1279, quando i testimoni affermarono di aver visto accordi scritti in cui il presule aveva garantito la sicurezza dei mercanti lombardi, principalmente Milanesi e Cremonesi sul tratto di strada tra Santo Stefano e Sarzana39.
Se lo strumento principe per le città interessate a proteggere i propri mercanti sulla Francigena lunigianese era l’accordo giurato dalle parti, valevole il più a lungo possibile e costruito sulla base della mutua consapevolezza dei rispettivi interessi, l’imperatore aveva invece a disposizione due strategie diverse e complementari, entrambe estemporanee e poco sostenibili: la minaccia militare e la concessione di privilegi.
L’itinerario italico di Federico Barbarossa ebbe nel monte Bardone un passaggio essenziale40. L’imperatore era a Pontremoli nel 1160, programmò un trasferimento da Parma a Sarzana nella primavera del 1164 e attraversò il passo, anche se con difficoltà, nel settembre 1167. La sua fu una presenza estremamente gravida di conseguenze per tutte le potenze locali che qui avevano un controllo diretto sulla Francigena: tra 1154 e 1185, infatti, è concentrata la maggior parte dei diplomi imperiali relativi alla Lunigiana, 8 contro i 13 complessivi emanati tral’inizio del secolo XI e la metà del Duecento41. Un corpus che non ha mancato di suscitare il dovuto interesse. Lo studio complessivo di tutti questi diplomi, esaminati da un’ottica‘imperiale’, si deve a Ferdinand Opll, che ha pubblicato uno scritto sulla politica viaria applicata dall’Impero nei riguardi del monte Bardone e una riflessione complessiva sull’itinerario del Barbarossa42. Opll ha visto all’origine di questi numerosi diplomi il tentativo imperiale «di assicurarsi il controllo di un collegamento stradale così importante» e quindi di applicare in loco una «regolare Passpolitik», concentrando consapevolmente i suoi sforzi sul versante meridionale della catena montuosa, perché «meno penetrato dalle formazioni comunali» e dominato invece da «poteri ancora tradizionali» su cui l’imperatore poteva avere «maggiori possibilità di influenza». Se dal punto di vista delle intenzioni la strategia appare chiara, si deve tuttavia notare che questi stessi diplomi, guardati da un’ottica più lunigianese – che tiene conto, cioè, della dinamica interna delle forze in campo – si rivelano intrinsecamente fragili.
Se si considerano i diplomi e gli eventi che precedono la battaglia di Legnano, ad esempio, il Barbarossa sembra imbarcarsi in una serie di tentativi fallimentari. Il più clamoroso è certamente quello che riguarda Pontremoli, cittadina che controllava direttamente il passo nel versante marittimo. Il primo febbraio del 1167 Federico concede molto ai Pontremolesi: le regalie per il territorio che circondava l’abitato e soprattutto – come abbiamo visto – la riscossione del pedaggio43. È chiaro il tentativo di spostare, su un fronte favorevole all’impero, un comune che è invece alleato da sempre con l’ostile Piacenza, ieri per contrastare le pretese di Parma e dei Malaspina sui passi appenninici, oggi per ostacolare i programmi del Barbarossa44. La controparte, quindi, non è certo di quelle facili e Federico se ne accorge appena sette mesi più tardi quando, con un esercito decimato dalla febbre, deve passare la Cisa, e si trova – è il caso di dirlo – ‘il passo sbarrato’ proprio dai Pontremolesi45. Il racconto di quest’episodio, narrato dall’anonimo continuatore della storia di Lodi, è illuminante.
Avvicinandosi alla località che si chiama Pontremoli e avendo disposto di transitare per il suo suburbio, i Pontremolesi non gli permisero assolutamente di passare per la loro terra. L’imperatore, non potendo passare di lì contro la loro volontà a causa della morfologia dei luoghi e perché i suoi erano pochi, rasati e infermi, essendo già transitato da questa parte del castello che si chiama Malnido (Villafranca), volse verso il mare, affrettando il viaggio per la terra del marchese Opizzo Malaspina, sotto la guida del marchese stesso46.
Il piccolo comune dell’Appennino tosco-ligure, quindi, facendosi forte dello stesso ambiente naturale, impervio e inospitale, riuscì da solo a impedire il transito dell’imperatore, che si dovette affidare all’aiuto di un suo vassallo, Opizzo Malaspina, e dirottare l’esercito verso un disagevole percorso alternativo. D’altra parte, Opizzo era il rappresentante perfetto di quelle «forze tradizionali» di cui parla Opll e su cui l’imperatore avrebbe fatto più concreto affidamento. Ma, come già notato da Raul Manselli, nelle convulse vicende che interessarono il regno italico nella seconda metà del secolo, il Malaspina ebbe un comportamento tutt’altro che coerente47. Cambiò fronte più volte a seconda dell’opportunità e delle contingenze: nel 1155 difese accanitamente Tortona quando venne assalita dall’imperatore, diventò poi alleato del Barbarossa dal 1160 al 1167, per spostarsi nuovamente sul fronte della lega lombarda alla fine di questo stesso anno48. Ed è forse proprio a causa di quest’ultima defezione che l’imperatore di ritorno dall’Italia centrale nel 1178 decise di scartare il passo della Cisa per imbarcarsi in un lungo e tortuoso percorso attraverso le coste liguri e i monti del genovesato49. I diplomi che aveva tanto generosamente elargito ai numerosi poteri lunigianesi – oltre ai Malaspina e a Pontremoli anche ai signori da Vezzano e alla città di Sarzana – non erano riusciti a dargli un effettivo controllo del valico50.
Tra i diplomi imperiali del Barbarossa, quello indirizzato al vescovo di Luni nel 1183 si pone – lo abbiamo già notato – su un livello lievemente diverso. Benché contenga la concessione del pedaggio sulla via Francigena per il tratto di pertinenza vescovile (secundum quodhabere consuevit), il ripatico dei porti di Luni e di Ameglia e la conferma di proprietà, diritti e pertinenze debitamente elencati, il diploma assegna infatti al presule il comitatum Lunensem cum omni integritate honoris sui. Come già notato, con questo atto giunsero a esito unitario due aspirazioni diverse: l’imperatore, forse anche in relazione ai tumultuosi trascorsi appenninici, cercava di riorganizzare uno spazio strategicamente importante come quello lunigianese, strutturandolo attorno alla figura più prestigiosa e potente del luogo51; il vescovo ambiva da parte sua dare un sigillo di ufficialità al suo dominio, in crescita da quasi tre secoli e costituito – come abbiamo visto – da una serie di castelli, borghi e ville concentrati per lo più nella bassa val di Magra e Versilia settentrionale. Un patrimonio ragguardevole che consentiva un controllo diretto a un tratto importante della Francigena, prossimo alla foce del Magra e ai principali percorsi per la Garfagnana e l’entroterra ligure, ma che era molto lontano dall’essere compatto e omogeneo. Proprio per dargli maggior forza e compattezza e così garantire all’impero un interlocutore stabile, il Barbarossa ripescò dal passato il nome di una circoscrizione comitatum lunensem che probabilmente non aveva mai avuto confini chiari o che – se li aveva avuti – ne aveva persa da tempo la memoria. Un’operazione antichizzante, fuori dal tempo, poco consapevole della dinamica delle forze in campo e per questo destinata all’insuccesso. Non caso quando il nipote del Barbarossa si trovò ad affrontare le medesime problematiche adottò una strategia completamente differente: ripose nel cassetto della storia il conte di Luni e creò una circoscrizione nuova, la provincia di Lunigiana.


The geography of the path is remarkable. I really liked the way the text slowly shows how the path makes politics and politics makes the path.