II.5 – Contea, marca e dominati
E. Salvatori, Il fegato del vescovo – II.5 – Contea, marca e dominati
Tra XII e XIII secolo gli eventi storici, legati soprattutto alle strategie seguite dagli imperatori nel Regnum, diedero forti spinte al già notevole dinamismo dei dominati lunigianesi. Area fortemente caratterizzata da un reticolo di strade, valichi, approdi,oltre che da un tratto particolarmente rilevante della Romea-Francigena, la val di Magra col il suo molte Bardone, da sempre transito essenziale nei collegamenti tra l’area lombarda e toscana, diventò spazio strategico per i ripetuti passaggi in Italia di Federico Barbarossa. L’imperatore era a Pontremoli nel 1160, programmò un trasferimento da Parma a Sarzana nella primavera del 1164 e attraversò il passo, anche se con difficoltà, nel settembre 1167. La sua fu una presenza estremamente gravida di conseguenze per tutte le potenze locali che in questo lembo di territorio avevano un controllo diretto sulla Francigena: il vescovodi Luni, i marchesi Malaspina e signori da Vezzano, i comuni di Pontremoli e Sarzana. Tutti ricevettero concessioni e conferme: 8 diplomi nel trentennio tra il 1154 e il 1185. Si trattò di una sorta di «politica di passo» – così come l’ha battezzata Ferdinand Opll – che vide l’imperatore garantire privilegi e protezione a comuni, signorie e marchesi e che ebbe un esito per lui sostanzialmente fallimentare1. Tra le concessioni, tuttavia, ne troviamo una di segno diverso: la nomina del vescovo di Luni a conte del comitato omonimo. Già preannunziata nel 1162 nel diploma elargito dal Barbarossa ai Pisani2, operativa nel 1180 quando ilvescovo Pietro si definì Dei gratia Lunensi episcopo et eiusdem comitatus comite3, l’elevazione a comes del prelato lunense si ufficializzò solo nel 1183, quando Federico gli confermò il comitatum Lunensem cum omni integritate honoris sui, il ripatico dei porti di Luni e Ameglia e il pedaggio sulla via Francigena «che era solito avere»4. Due anni dopo a San Miniato l’imperatore prese sotto la sua protezione la chiesa di Luni e in particolare la città con fossati e suburbi, i diritti di ripa, teloneo, mercato, banno, pedaggio, giustizia e salvacondotto «per tutta la terra pertinente all’episcopato», lo spazio tra la città e il mare, la struttura dell’antico anfiteatro romano e il comittatum Lunensem totum in integrum, elencando di seguito puntualmente i domini dell’episcopato5. Dietro ai privilegi riconosciamo il tentativo estremo dell’imperatore, tradito dai Malaspina e privo di un sostanziale appoggio in loco, di promuovere la figura più prestigiosa e potente della Lunigiana, forse sperando così di limitare il dinamismo endemico della zona e garantire passaggi meno travagliati. Vi riconosciamo però soprattutto l’esito positivo della linea seguita dai vescovi di Luni – in particolare Pipino e Pietro – di rafforzare e ingrandire il proprio potere temporale nello spazio della diocesi e dare un sigillo di ufficialità al loro dominio6.
In realtà al titolo comitale non corrispose mai un effettivo esercizio dell’ufficio pubblico nello spazio dell’antico comitato, qualunque esso fosse, e nemmeno – nonostante la storiografia sulla Lunigiana medievale abbia spesso alimentato questa lettura – la traccia formale di una strategia vescovile tesa a creare entro i confini della diocesi un dominio territoriale unitario, simile ai principati vescovili di Trento e Bressanone7.
A mio avviso non è possibile riconoscere nella strategia seguita dai vescovi-conti di Luni tra XII e XIII secolo un disegno di principato territoriale esteso alla diocesi. Quello che si intravvede nelle tracce documentarie è un tentativo di ricomposizione e di rafforzamento del potere signorile dei vescovi avente però per oggetto una porzione limitata del territorio diocesano, individuabile con la bassa Lunigiana e il pedemonte apuano. In sostanza le ambizioni politiche dei vescovi di Luni furono – nel periodo indicato – indubbiamente di alto livello, ma anche ragionevolmente limitate al territorio che potevano sperare di controllare.
Si tratta di un’affermazione che deve, ovviamente, essere dimostrata, anche perché si pone controcorrente nei confronti di una visione consolidata della Lunigiana medievale come la leggiamo nelle pagine di Gioacchino Volpe, Geo Pistarino, Romeo Pavoni, Mario Nobili e in ultimo anche della sottoscritta8.
Il Volpe, nel trattare la questione del comitato lunense assegnato e confermato da Federico al vescovo Pietro, così si esprime:
I due diplomi del 1183 e 1185 sono il fondamento giuridico della potestà comitale dei Vescovi di Luni; e «Conti» si chiameranno così d’ora in poi assai frequentemente [..] 9
Se la prima parte dell’enunciato è incontestabile, la seconda invece – ripresa talvolta acriticamente dagli studiosi successivi – non corrisponde a quanto ci restituisce la documentazione. Nei numerosi atti conservati nel Codice Pelavicino la menzione del doppio titolo vescovilee comitale è, al contrario, piuttosto rara, anche se la aggreghiamo a quella del comitato stesso.
Il vescovo Pietro (attestato dall’ottobre 1178 al febbraio 1190), proprio colui che ottenne i due privilegi, ostenta il titolo una sola volta su ben 35 attestazioni10. Il successore Rolando (1191), così come Norandino (gennaio 1222-maggio 1223) non risultano averlo mai usato. Anche Gualterio II (1193-1212), il vescovo che più si distinse nel tentativo di «realizzare un organismo politico particolare nella diocesi di Luni»11, si fregia del titolo in maniera diretta e volontaria una sola volta nel 120012su 52 documenti prodotti nel corso del suo episcopato, anche se il comitato di Luni viene nominato nei suoi atti altre tre volte. Risulta inoltre menzionato come vescovo e conte da defunto, ma anche in questo caso una sola volta in un gruppo di 21 atti postumi, con presenza complessiva valutabile al 2,74%. Marzucco (marzo 1214-marzo 1220) viene detto vescovo-conte due volte su 30 documenti, in entrambi i casi solo dopo la sua morte; anche se in effetti, come vedremo, la questione del comitato viene trattata con particolare attenzione proprio nel corso suo episcopato. Buttafava (luglio 1224 – gennaio 1226) è vescovo e conte una sola volta su 11 attestazioni. I numeri cominciano ad aumentare lievemente, ma solo se consideriamo anche le menzioni del comitato, con Guglielmo (maggio 1228 – aprile 1272) ed Enrico da Fucecchio (aprile1273 – fine 1296): si tratta comunque di menzioni tutt’altro che frequenti, considerando soprattutto la quantità di attestazioni che riguardano entrambi: 5 (+7 comitati) su 225 documenti per Guglielmo (presenza 2,22-5,33 %), 4 (+3 comitati) su 63 documenti per Enrico (presenza 6,35-11,11 %).
Sono numeri che non consentono, a mio avviso, di accentuare i toni sulla presunta strategia seguita dai presuli nella costruzione di uno «stato feudale» in Lunigiana, fondata sul prestigio o diritto che la dignità comitale loro avrebbe conferito. Risulta invece doverosa una riconsiderazione puntuale delle occorrenze, che in questo paragrafo riguarderanno però solo gli atti vescovili da Pietro fino a Buttafava, poiché con Guglielmo ed Enrico entriamo in una fase – come vedremo – del tutto diversa.
Nel già citato documento del 1180 – la prima attestazione in assoluto del doppio titolo – si ricorda l’accordo che Pietro, Dei gratia Lunensi episcopo et eiusdem comitatus comite, ha siglato con alcuni milites di Carrara per la creazione di un borgo tra il torrente Avenza e la costa. Nel patto si stabilisce che il vescovo avrà il dominio del borgo, delle piazze, dei suburbi e delle opere di difesa, così come le tasse indirette derivanti da attività commerciali, mercantili e giudiziarie; la metà dei proventi sarà versata ai milites salvo quelli derivati dalle sanzioni per i reati; i milites riceveranno inoltre un terzo dei proventi derivanti da avventori, viandanti, mercanti e pellegrini, salvo alcune eccezioni. Le controparti si impegnano a non ospitare nel borgo alcun nemico reciproco e nemmeno un affiliato senza il mutuo consenso13.
La peculiarità di questo atto, rispetto agli altri che coinvolgono Pietro, la riconosco nel fatto che si tratta di un vero e proprio accordo paritario tra il presule e alcuni nobili della zona e che riguarda una località – il litorale tra Carrara e il mare – non ancora di pertinenza vescovile e posta esternamente alla corte di Carrara, dominio invece vescovile fin dal X secolo14.La proprietà di un quarto del costituendo borgo sarebbe, a seguito dell’accordo, restata nelle mani del vescovo, mentre i rimanenti tre quarti sarebbero stati assegnati in feudo a quegli stessi milites. Si tratta di un contesto che riguarda in pieno l’esercizio di poteri di tipo pubblico, espressamente nominati: la gestione delle entrate indirette che provenivano da cambiatori, macellai, forni, mulini, approdi, mercati, curatura, banno, distretto, dogana e giustizia su falsari, ladri, omicidi, truffatori e traditori.
In altri tre atti il presule non agisce come vescovo conte, ma fa utilizzare dal notaio il termine “comitato”.
Il primo è una cessione degli anni ’80, in cui Lombardello di Burcione assegna a Pietro parte del castello della Brina, ricevendola poi indietro in feudo con l’aggiunta di altri terreni15. In quell’occasione il donatore e neo-vassallo giura fedeltà al vescovo contro tutti eccetto i marchesi Malaspina, impegnandosi ad aiutarlo a retinere comitatum et episcopatum. Qui il termine “comitato” non rivela alcuna connotazione topografica, ma si riferisce unicamente al titolo pubblico detenuto dal presule, che appare in evidente competizione con quello marchionale vantato dai Malaspina, di cui Lombardello era vassallo.
Gli altri due atti sono quelli che attestano e perfezionano il suo accordo con i Bianchi di Erberia per la costruzione in co-dominio di un nuovo castello presso Collecchia (Fivizzano), grazie anche all’acquisizione del terreno su cui la fortificazione doveva essere costruita16. In entrambi i documenti si specifica che i Bianchi di Erberia avevano dominio nel comitato di Luni (habentibus podere in Lunensi comitatu), specificazione che non si riferisce però al luogo da incastellare. Nel documento la precisazione del trovarsi il dominio dei Bianchi “nel” comitato di Luni sembra in realtà posta a giustificazione di un accordo che probabilmente entrava in contrasto con altri legami feudali già detenuti dalla famiglia, tra le consorterie più importanti della diocesi di Luni e che inoltre riguardava uno spazio di recente acquisizione.
I documenti fino a qui esaminati mostrano – pur nelle reciproche differenze – alcuni tratti in comune: la fedeltà al vescovo da parte di personaggi già legati feudalmente ad altri e l’estensione del controllo vescovile a domini non ancora sotto sua diretta pertinenza, conesercizio sul luogo di diritti di tipo pubblico.
Il riferimento al comitato si ritrova anche nell’atto – siglato dal vescovo Marzucco – che sana un contenzioso proprio con i Bianchi di Erberia sorto nel 121417. Qui gli arbitri stabiliscono che i signori di Erberia debbano concedere al vescovo – mai denominato “conte” in tutto il lungo documento – tutte le fortificazioni che hanno di qua dai monti verso l’episcopato di Luni, in modo da servire il vescovo contro tutti, eccetto che contro loro stessi; devono inoltre far giurare a tutti i loro uomini di agire militarmente, a loro spese, in appoggio al vescovo quando costui lo richiede «a difesa delle terre sottoposte alla giurisdizione dell’episcopato e comitato».
[..] laudaverunt quod predicti domini Henricus, Lanfranchinus, Bernardinus et Palmerius et eorum heredes teneantur, sub iam predicta pena C marcharum argenti, dare et concedere perpetuo, ab hodie in antea omnes suas munitiones, menia et castra, que et quas habent ab alpibus citra versus Lunensem episcopatum, predicto Lunensi episcopo et eius successoribus ad faciendum guerram et pacem omnibus hominibus et contra omnes homines et personas, excepto contra se ipsos, quandocumque voluerit predictus dominus episcopus vel eius successores. Et quod faciant omnes suos homines iurare pacem et guerram facere omnibus hominibus et contra omnes homines ad voluntatem predicti domini episcopi vel eius successorum et facere hostem et cavalcatam quocumque voluerit idem dominus episcopus vel eius successores, eorum propriis expensis, ad deffensionem terrarum iurisdictionis Lunensis episcopatus et comitatus.
Seguono poi altri obblighi a cui i Bianchi si impegnano ad attenersi nei quali correttamente Mario Nobili legge il successo formale del vescovo di Luni nel ricondurre questa forte consorteria nobiliare sotto il suo potere signorile18. Mi limito in questa circostanza solo a verificare, nel contesto, la presunta valenza geografico amministrativa del termine “comitato”, che potrebbe essere illuminata dalla posizione delle fortificazioni ab alpibus citra versus Lunensem episcopatum. Cosa si intendeva nel concreto? Dato che nel documento in questione non troviamo appigli specifici, dobbiamo guardare agli altri atti che vedono interagire i Bianchi di Erberia e il vescovo, oltre che alla menzione delle “Alpi” nel ricco corpus documentario del Codice Pelavicino.
Nel 1188-1189 abbiamo il già citato tentativo di incastellare Collecchia, località posta tra Aulla e Fivizzano, lungo la valle dell’Aulella. Nel medesimo periodo si stipulano tra le parti patti riguardanti l’erbatico che il vescovo chiedeva agli uomini dei Bianchi. Costoro ottengono che i “loro” residenti nelle corti di Viano e di Monti non abbiano tale obbligo nello spazio da Arcola verso Luni o il mare, in forza del fatto che gli uomini del vescovo, residenti nel dominio dei Bianchi, non prestano alcun erbatico. Le località e le alture nominate si trovano anch’esse, come Collecchia, sul versante settentrionale delle Alpi Apuane nelle vicinanze di Fivizzano; mentre l’area considerata di pieno dominio vescovile è posta presso la foce del Magra, da Arcola fino al litorale19. Nel 1197 Bernardino di Guido di Erberia giurò al vescovo di Luni Gualterio che non avrebbe violato la strada (qui intesa in senso generico) e non lo avrebbe ostacolato nella costruzione di una fortificazione tra il fiume Isolone e Carrara, tra i monti e il mare; richiedeva inoltre l’aiuto del presule in caso di guerra contro i suoi consorti di Fosdinovo. La zona in questione è chiaramente posizionata tra le Alpi Apuane e il mare, in particolare nella zona tra Fosdinovo, Carrara e la foce del Magra20; altri atti sparsi, sempre riguardanti i medesimi attori, nominano le località di Soliera, Moncigoli e Rometta, oggi nel comune di Fivizzano: sono tutte attestazioni circoscrivibili al territorio del pedemonte apuano che si dispone sul versante lunigianese21. Relativamente al termine alpes, invece, se si espungono i documenti in cui il significato è quello generico di montagna/altura, troviamo il lemma usato solo in relazione alle attuali Alpi Apuane22.
Se inseriamo tutti i dati in una mappa, risulta evidente come lerivendicazioni e le preoccupazioni dei vescovi di Luni riguardanti i Bianchi di Erberia riguardassero un territorio certamente ampio, ma comunque parziale rispetto a quello che poteva essere lo spazio della diocesi (fig. 2). Di conseguenza non siamo autorizzati a leggere la richiesta di controllo di tutte le munitiones, menia et castra, que et quas (i Bianchi) habent ab alpibus citra versus Lunensem episcopatum come prova dell’equazione comitatus / episcopatus in termini di area geografica. La concordia del 1214 con i Bianchi è certamente segno «della politica di espansione delvescovo», ma – a mio avviso – non necessariamente del fatto che egli rivendicasse «l’esercizio di poteri regalistici» all’interno della sua contea-episcopato «concepito come pubblico distretto»23.
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Fig. 2 Località nominate nella documentazione tra i Bianchi diErberia e il vescovo di Luni nel XII secolo GIS consultabile all’indirizzohttps://tinyurl.com/ConfiniLunigianaGIS |
Ma torniamo al vescovo Gualterio, vero successore del vescovo-conte Pietro dopo la breve parentesi di Rolando. Gualterio utilizza una sola volta il doppio titolo, ma l’uso (e il non uso) dei termini comes e comitatus negli atti che lo vedono protagonista credo chiarisca meglio quale poteva essere, per questo presule, la percezione dei suoi diritti sul territorio.
Partiamo in primo luogo dal rapporto con i burgensi di Sarzana. Non è qui certo il caso di ripercorrere motivi e fasi di una relazione estremamente movimentata e contrastata, già sviscerata egregiamente da Gioacchino Volpe24. Vediamo semplicemente in quali circostanze e all’interno di quali argomenti il titolo comitale è stato menzionato.
Nel 1199 si svolge un arbitrato tra Gualterio e i consoli di Sarzana per la questione relativa alla destinazione dei beni degli stranieri abitanti nel borgo e deceduti senza testamento. Il presule sostiene che tali beni gli dovevano essere versati tanquam ad dominum et comitem.. de iure ratione districtus et comitatus, mentre i consoli del borgo lo negano: nella sentenza che stabilisce che i beni siano divisi a metà tra i contendenti e che i consoli dichiarino di detenere la loro parte a titolo di feudo, non si fa accenno alcuno a titolo comitale o al comitato, segno che tale riferimento non è stato preso in considerazione come causa giustificativa25. Due anni dopo, in occasione del trasferimento della sede della chiesa di Luni a Sarzana, il vescovo si trova a dover acquisire uno spazio altrui solo parzialmente costruito e a definire in dettaglio tutti i regolamenti per la amministrazione del borgo. In quell’occasione il termine comitatus viene usato in una sola occasione come sinonimo di episcopatus, entrambi intesi non in senso territoriale, ma come origine del diritto sulle persone: si chiarisce infatti che gli abitanti già detentori di feudi «dall’episcopato o dal comitato» debbano giurare fedeltà al vescovo, anche se hanno attivi altri legami feudali; quelli che non sono già feudatari, devo giurare come hanno fatto fin a quel momento gli uomini del borgo26. In sostanza gli accordi rendono di fatto fideles tutti i burgensi, sia quelli che già erano homines del vescovo a qualsiasi titolo, sia chi avesse altri legami feudali anteriori27.Si ritrova anche in questo caso il tratto comune già prima notato: estensione del dominio su spazi nuovi e su persone prima estranee o già legate feudalmente ad altri.
Nell’arbitrato del 1199 il titolo comitale, pur menzionato, non viene adottato come base degli accordi e non è particolarmente enfatizzato, al contrario di quello che invece accade quando i nodi della controversia tra le parti giungono al pettine. Siamo nel 1219: Gualterio è ormai defunto e ad ereditare gli strascichi del contrasto – come accade anche per i Bianchi di Erberia – è il vescovo Marzucco. Costui, da buon pisano, cittadino avvezzo alle diatribe legali giocate in punta di diritto, chiama a giudice della controversia nientemeno che Bandino Gaetani, esponente di una celebre stirpe di giuristi, figlio di Gaetano e nipote di Burgundione da Pisa, il traduttore dei passi greci del Digesto28.
Nel marzo 1219 il vescovo chiede al comune il rispetto dei precedenti patti siglati con Gualterio – quelli sopra descritti – e il pagamento di un risarcimento cospicuo per il loro mancato rispetto29. Nel lungo documento il riferimento al titolo pubblico e al comitato è frequente, ma Marzucco non si qualifica mai direttamente come comes: Bandino Gaetani è infatti arbitro eletto da Marzucco, Dei gratia Lunensi episcopo pro ipso episcopatu; il vescovo agisce contro i consoli perché lo hanno offeso gravemente secondo il diritto e le consuetudini feudali et honores et iura predicti domini episcopi et episcopatus diminuerunt. In tutta la prima parte dell’arbitrato, quella in cui Assalito, rappresentante del vescovo, elenca le richieste, mai una volta si ricorre al titolo comitale o si fa riferimento al comitato; questo avviene solo dopo che Masnerio – il sindaco del comune di Sarzana – chiede che il vescovo non ponga alcun signore o rettore o consoli o podestà al di sopra del Comune senza il permesso degli stessi consoli, in quanto privo del diritto di agire in tal modo30. Solo a questo punto il rappresentante di Marzucco tira fuori la carta del comitato, dichiarando che il vescovo è «conte e giudice del castello e del borgo di Sarzana»; affermazione che ovviamente Masnerio contesta, sostenendo che il suo potere deriva invece da sentenze e da patti ed è relativo a questioni specifiche31. Assalito insiste e dice che è stato l’imperatore stesso a dare al predecessore di Marzucco il titolo di conte e giudice del castello e borgo di Sarzana, oltre che di varie terre dell’episcopato, ma Masnerio obietta che la cosa non riguarda il borgo32. All’osservazione che i burgensi avevano giurato fedeltà al vescovo, si obietta che lo avevano fatto «solo in quanto vescovo» e che avevano giurato di salvaguardare il comitato solo «se lo avessero avuto». Le recriminazioni reciproche coprono diverse altre carte e non è qui il caso di esaminarle ulteriormente in dettaglio, se non per ribadire che la questione del comitato ci entra in maniera rapsodica, tirata in ballo da Assalito ogni tanto, quasi a voler cogliere in fallo Masnerio e farlo ammettere quanto lui insiste pervicacemente a negare. L’apice della lite su questo punto specifico si tocca quando Masnerio dichiara – drammatizzando potremmo dire “esclama” – che la “marca” di Luni è il marchesato dei Malaspina e di Massa e che in Lunigiana non esiste altro comitato o marca33.
Si tratta di una affermazione giustamente famosa nella letteratura storiografica lunigianese, intesa come traccia di uno scontro di poteri che si dipana con alti e bassi per tutto il XIII secolo fino ai primi decenni del secolo successivo: il comitato del vescovo contro la marca dei Malaspina. In realtà si tratta – come è evidente – di una provocazione estrema, quasi stizzosa, da parte di un’istituzione – il comune di Sarzana – che cerca da tempo di guadagnare l’indipendenza dalla signoria vescovile e che, a tal fine, nega recisamente che il vescovo sia titolare di poteri pubblici altri, rispetto a quelli esercitati sui suoi domini signorili. Merita notare che in nessun caso, in tutto il documento, il termine “comitato di Luni” acquisisce una connotazione territoriale, mai e poi mai si arriva a equipararlo allo spazio della diocesi, ma è sempre inteso come il potere che il vescovo ha il diritto di esercitare sulle “sue” terre. Questo concetto è espresso dallo stesso rappresentante del vescovo, quando afferma che gli antecessori di Marzucco furono conti per concessione imperiale, «ossia conti delle terre del comitato di Luni ossia delle terre che il vescovo possiede o domina»34. Curiosamente l’unico altro riferimento che Assalito usa per rivendicare al vescovo la giurisdizione su un territorio più esteso dei suoi domini diretti è il modello rappresentato delle città toscane e lombarde, con la loro possibilità di imporre multe e tasse a tutti. Sostiene infatti Assalito che è consuetudine delle città e delle terre che sono in Toscana e in Lombardia imporre il banno a tutti gli abitanti se non fanno quanto devono e di farsi farsi pagare da costoro in caso di spese fatte per l’utilità comune35. L’obiezione di Masnerio è tagliente: non pertinet ad causam.
Perfettamente in linea con quanto abbiamo fin ora evidenziato risulta la sentenza di Bandino, il quale, avendo letto il privilegio imperiale, riconosce che il vescovo di Luni è conte e giudice dell’episcopato e del comitato di Luni, ma in realtà fonda la sua sentenza sui patti a suo tempo siglati tra il vescovo Gualterio e i burgensi, redatti dal notaio Conforto e ricordati ben tre volte nel dispositivo36. In sostanza se indubbiamente Marzucco tentò, con questa lite giudiziaria, di porsi nei confronti di Sarzana come supremo signore feudale, anche in virtù delle sue prerogative comitali, il temporaneo successo gli derivò soprattutto dagli accordi stipulati dal predecessore con gli abitanti del luogo, quindi da atti di natura pattizia. L’arbitrato non ci consente quindi di affermare «che nelle concezioni dei vescovi-conti di Luni il territorio della contea-diocesi fosse inteso come un ambito politico unitario, all’interno del quale i rapporti feudali di un certo tipo, quelli di contenuto e significato eminentemente pubblico» dovessero far capo al vescovo-conte37. Il valore determinante dei patti di Gualterio, accresciuto dalla sentenza del Gaetani, venne sancita ulteriormente nel 1260 dall’arbitrato del cardinale Ottobono Fieschi tra le medesime parti. Il cardinale non solo ratificò quanto deciso dal giurista pisano ma arrivò addirittura ad assolvere gli abitanti di Sarzana dalla richiesta di sottoporsi alla giurisdizione del vescovo in quanto conte38.
Ultimo atto da prendere in considerazione per Gualterio risale al 1200, quando – agendo come vescovo e conte -, stabilì regole omogenee per tutti gli uomini sottoposti alla sua giurisdizione. Si tratta di ordinamenta che intervenivano a sanare difformità nelle consuetudini (certas consuetudines) dei feudatari e degli affittuari / livellari del vescovo. A questo fine Gualterio riunì a Carrara una “curia pubblica” di alto livello, per stabilire le conseguenze per il tradimento di uno o più consorti a capo di un castello, le pene per affittuari e livellari insolventi; il divieto di acquisto senza atto notarile e tariffa relativa; le tasse da richiedere per chi intende citare qualcuno in giudizio e il tariffario del corpo giudicante; i limiti alle doti e alla disponibilità dei beni da parte delle vedove e, infine, l’obbligatorietà di definire l’origine dei beni di cui non è chiara la provenienza39. Si tratta senza alcun dubbio di un documento di enorme rilievo, che testimonia l’intenzione di Gualterio di razionalizzare la gestione dei suoi domini e stabilire norme omogenee come detentore del potere pubblico, ma non viriconosciamo alcuna traccia di una visione territoriale dello stesso, né segno di un progetto politico vescovile che prevedesse la territorializzazione dei rapporti feudali.
La prova a mio avviso più chiara che non si possa sostenere alcuna correlazione spaziale tra comitato e diocesi e che nel XIII secolo il concetto di Lunigiana avesse confini quanto mai vaghi, la ricaviamo dal celebre arbitrato del 1202 in cui vescovo e marchesi Malaspina provarono a dirimere le rispettive divergenze40. Causa scatenante della lite era stata la cessione fatta dagli Estensi ai Malaspina di una fetta cospicua dell’antico patrimonio obertengo, che includeva beni e diritti dei da Vezzano: un patrimonio posto tra la val di Magra, l’estremità meridionale della Val di Vara e l’entroterra del golfo (si veda la fig. 3). L’arbitrato identifica lo spazio entro cui vescovo e marchesi si dovevano rispettare vicendevolmente, impegnandosi a non rubarsi i vassalli e a restituire quelli surrettiziamente aggregati negli ultimi 10 anni; obbliga inoltre i marchesi a vendere al vescovo metà dell’acquisto estense. Dal punto di vista topografico il documento indica confini (confines, nell’immagine in azzurro) e dominati (curiae et districti, in rosso): relativamente ai primi si va dall’attuale Forte dei Marmi verso nord-est fino a raggiungere i monti, per poi seguire il crinale dell’Appennino Tosco-Emiliano fino al passo della Cisa; da qui si elenca le località comprensive del loro distretto poste prima sul Magra e poi in direzione sud, intorno alla maggiore area di influenza dei da Vezzano. Si prosegue indi con l’indicazione di confini, indicando il limite naturale della linea di costa, presumibilmente dal golfo della Spezia fino al punto di partenza.
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Fig. 3 Lo spazio definito dalla pace del 1202 in blu in confini inrosso le località. GIS consultabile all’indirizzohttps://tinyurl.com/ConfiniLunigianaGIS |
Commentando questo vasto territorio Gioacchino Volpe dice che «se non coincideva proprio in tutto con la diocesi e l’antico comitato di Luni, assai si avvicinava ad esso»41, facendo così ventilare – ma non dichiarandolo esplicitamente – una sorta di spartizione del comitato / diocesi tra le due maggiori signorie della zona. Il documento sembra in realtà disegnare una geografia molto più complessa e assai poco istituzionale.
Innanzitutto è bene notare che in alcuna parte dell’arbitrato il vescovo si presenta come comes o avanza diritti in qualità di comes. Solo una volta viene nominato il comitato, ma in una formula che abbiamo già abbondantemente commentato e che non fornisce al termine alcuna accezione geografica42. Né d’altronde viene mai menzionato l’episcopato inteso come spazio della diocesi, anche perché non se ne disegnano i confini: manca la pieve garfagnina (S. Pietro di Castello), gran parte della Val di Vara e tutta la Riviera. La logica che guidò gli arbitri nella definizione di questa area di rispetto reciproco sembra essere invece stata eminentemente pratica: erano i confini in cui vescovo e marchesi avevano entrambi il controllo diretto o indiretto di numerose località e di altre con cui le parti in causa avevano accordi pregressi (es. Pontremoli). Se nella parte orientale (dal mare ai monti e lungo il crinale fino alla Cisa) bastava indicare il confine, per la parte occidentale si dovevano invece nominare a uno a uno i luoghi, perché erano proprio quelli oggetto di contrasto. Si trattava, insomma, di uno spazio che non aveva, né ambiva ad avere, alcun valore distrettuale o giurisdizionale, ma che conteneva interessi comuni alle parti in causa. Non era di conseguenza uno spazio che poteva essere chiamato Lunigiana: tale macro-toponimo, pur essendo già usato all’epoca, sarebbe suonato in questo contesto troppo generico e vago per gli scopi perseguiti.
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