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II.10 – Spazio frammentato e paradigma dell’emarginazione

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E. Salvatori, Il fegato del vescovo – II.10 – Spazio frammentato e paradigma dell’emarginazione

Titolo vicariale e comitale continuarono a essere usati per diverso tempo contemporaneamente e in piena consapevolezza dei loro diversi significati: il primo in riferimento ai funzionari imperiali a nomina periodica attivi su un territorio non chiaramente definito; il secondo esibito dal solo presule ed espressione di un ruolo attribuito anticamente dall’imperatore, prestigioso e stabile nel tempo, sfoggiato saltuariamente solo entro la signoria vescovile.

Da questo punto di vista l’uso che se ne riscontra agli inizi del XIV secolo, periodo caratterizzato da intensi cambiamenti istituzionali e da momenti di vacanza della sede vescovile, è emblematico. Si guardi ad esempio al corpus documentario che compone la celeberrima “Pace di Dante” del 1306, ossia l’accordo stipulato tra il vescovo Antonio da Camilla e Franceschino Malaspina, quest’ultimo rappresentato appunto da Dante Alighieri1. Il contesto che portò alla stipulazione della pace fu il diretto prodotto della energica strategia di recupero delle prerogative signorili da parte di Enrico da Fucecchio, politica che provocò la reazione delle comunità soggette, dei signori locali e ovviamente dei Malaspina. Le tensioni si acuirono già nel corso dell’episcopato di Enrico, come si rileva da diversi atti del Codice Pelavicino: l’arbitrato del 1281 tra il presule e Moroello Malaspina, le memorie del vescovo sui diritti acquisiti e gli investimenti fatti2. Gli scontri continuarono anche con il successore, Antonio Nuvolone da Camilla3.Come già segnalato da Eliana Vecchi abbiamo per il 1301 traccia di uno scontro militare presso il castello della Brina, tra quelli oggetto di contesa, messa in atto da Opizzo, Moroello e Franceschino Malaspina per vendicarsi per i danni inferti alla Brina e «de morte et decapitatione trium domicellorum» di Obizzo4. Nel 1304, con una serie di incursioni, Franceschino prese possesso di alcuni territori di pertinenza vescovile situati a nord del castello di Mulazzo e attaccò altre località contese5. Due anni dopo si arrivò all’ennesimo tentativo di pacificazione, favorito dal fatto che Antonio da Camilla era cugino di Alagia Fieschi, moglie di Moroello Malaspina da Giovagallo6. Il corpus è composto da sei atti distinti: nel primo il marchese Franceschino concede a Dante ampi poteri di rappresentarlo per ottenere la pace dal vescovo7; il secondo è la vera propria “pace” nella forma di un accordo tra privati in cui al vescovo di Luni, riconosciuto come parte lesa, viene restituito ogni bene sottratto dal tempo del precedente accordo, mentre ai Malaspina sono rimesse le condanne e le scomuniche emanate dal vescovo. Segue l’atto di remissione delle condanne promulgate contro il Comune di Sarzana, la revoca dell’interdetto ai comuni di Sarzana, Santo Stefano, Ponzano e Bolano e, infine, la revoca delle condanne emesse nei confronti di sei fedeli dei marchesi. In quasi tutti i documenti il presule viene detto episcopus et comes8 e in un caso viene menzionato anche il comitato in riferimento agli uomini e alle terre coinvolti nell’accordo9. Si tratta tuttavia semplicemente di titolo dovuto, oserei dire “identificativo”, al pari di quello di marchio utilizzato per Franceschino, mai menzionato in nessun punto del corpus come origine dei diritti contesi. Al contrario, quando, nell’ultimo documento, il vescovo revoca le condanne contro i sei seguaci dei Malaspina, queste risultano essere state emanate da «vicari, giudici e notai della vicaria come da qualsiasi podestà, rettore e ufficiali dell’episcopato» e la nullità si dichiara vigente nonostante quanto possa essere stato scritto o verrà scritto in futuro «nelle costituzioni e negli statuti della vicaria di Lunigiana»10. Il riferimento è evidentemente alla vicaria imperiale della provincia di Lunigiana che – come si è visto – era gestita in autonomia dal vescovo a partire da Enrico da Fucecchio, ma che nonostante questo restava un ufficio e una carica temporanea di nomina imperiale, distinta da quella comitale. Che quest’ultimo titolo – quello di comes – fosse chiaramente percepito come prerogativa vescovile, lo riscontriamo nel fatto che nell’ottobre del 1307, essendo la sede vacante, il lucchese Maghinardo degli Obizzi si trovò ad agire come “visconte” a nome del capitolo di Luni11; ugualmente nell’agosto del 1312 visconte fu il marchese Luto Malaspina12.

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Tra la fine del XIII secolo e gli inizi del XIV la strategia dei vescovi di Luni di arginare il dinamismo interno e le brame esterne al loro dominio fallì. Il bacino idrografico del Magra si andò a caratterizzare in maniera crescente come area di frizione tra le potenze vicine – Genova, Pisa, Lucca, Milano e Firenze – ove la frammentazione interna dei vari dominati signorili favoriva l’emergere di personalità di diversa origine e caratura, tese a creare entità geopolitiche capaci di agire come ago della bilancia entro il complicato quadro dei nascenti stati regionali. La prima di queste “avventure” fu certamente quella, a cui si è già accennato, di Niccolò Fieschi. Costui, sentendosi forte dell’appoggio papale, seguì la linea della acquisizione progressiva, per lo più tramite compera poi ratificata dalla concessione in feudo, di numerosi dominati nella Liguria di Levante e sulla riva destra del Magra. La sommatoria delle acquisizioni non consentì mai al Fieschi la creazione di una giurisdizione compatta e nemmeno la ricerca di una qualche legittimazione ufficiale dell’insieme del proprio dominio, al punto che la conseguente sconfitta portò formalmente alla “vendita” a Genova di ogni singolo acquisto13.

L’avventura di Castruccio Castracani maturò invece in un clima diverso, fortemente influenzato dalle lotte di fazione e segnato dalla spedizione italica di Arrigo VII. In tale contesto la scalata di Castruccio appare invece molto più attenta all’acquisizione dei titoli istituzionali che potessero risultargli utili in contingenze mutevoli e in un territorio amministrativamente confuso. La morte di Antonio da Camilla (1307) portò alla doppia nomina come presuli di Gherardino Malaspina (guelfo) e del frate minore Guglielmo (ghibellino)14. Il mancato sostengo di Gherardino ad Arrigo VII spinse l’imperatore a revocargli il 23 febbraio 1313 ogni feudo, giurisdizione o privilegio ottenuto in passato dall’autorità imperiale; poco dopo Simone de’ Filippi venne nominato vicario generale e capitano di guerra in Lunigiana, Versilia e Garfagnana15.

Con la morte dell’imperatore si creò in zona l’ennesimo vuoto di potere di cui approfittarono in molti. Nel luglio del 1314 il lucchese Castruccio Castracani mandò un suo procuratore dal vescovo Gherardino Malaspina a Fucecchio – luogo dove il presule si era rifugiato e da dove continuò a reggere la diocesi senza mai insediarcisi – per ricevere la nomina a «visconte del vescovato di Luni»16. Il titolo di durata indefinita derivava indubbiamente dall’antica carica comitale, che tuttavia non è mai nominata nel documento17. La nomina che Castruccio ricevette pochi mesi dopo a Sarzana era invece quella di «vicario, difensore e protettore a nome dell’impero romano del comune di Sarzana e di Sarzanello» e aveva durata biennale fino all’eventuale nomina imperiale di altro vicario: si richiamava infatti alle constitutiones vicarie Lunigiane ossia al quadro funzionariale inaugurato da Federico II18. Il 5 agosto 1315 il Castracani ottenne infine da Federico d’Asburgo la nomina a vicario imperiale19, che tuttavia non oscurò i titoli precedentemente acquisiti: anzi le fasi dell’espansione del Castracani nelle terre lunigianesi confermano un uso assolutamente pragmatico e contingente delle diverse cariche istituzionali, compresa la signoria su Lucca (capitano e difensore della città dal giugno 1316). Come già notato da Michele Luzzati quando fu incarcerato per ordine di Uguccione della Faggiola, probabilmente per il rifiuto di cedere le terre della Lunigiana, Castruccio viene detto vicecomes episcopatus Lunensis. Quando nel 1319 attaccò Spinetta Malaspina e sottomise diversi centri e di castelli della Lunigiana, si mostrò «rappresentante ora dei diritti di Lucca, ora dei diritti del vescovo di Luni»20. Anche dopo la nomina nel 1320 a vicario generale di Lucca e del suo distretto, della Valdinievole, della Valleariana, della Val di Lima, della Garfagnana lucchese, della Versilia, di Massa, della Lunigiana, del Valdarno lucchese e delle terre della parte imperiale di Pistoia, il Castracani continuò a farsi indicare nei vari trattati e accordi come capitano o signore di Lucca e della parte imperiale di Pistoia, visconte di Luni o anche – come si legge nelle convenzioni con Pontremoli – signore della parte imperiale di Pontremoli e “amico” dei marchesi Malaspina21, mostrando sempre una «scrupolosa osservanza di ogni forma di potere giuridicamente sanzionato»22, ma anche un’estrema disinvoltura a usare il titolo che riteneva più utile nei confronti dell’interlocutore.

La parabola del Castracani diede probabilmente un rilievo temporaneo al titolo di visconte di Luni, sfoggiato dopo di lui da Alderigo Antelminelli signore di Sarzana per incarico di Bernabò Visconti nel 136923 e poi utilizzato da Genova per isuoi funzionari locali forse già dal 1407, quando la Superba riuscì amettere le mani sulla cittadina lunigianese. Furono infatti visconti di Luni Battista Giustiniano (ante 1410), Filippone De Franchi (1° aprile1410) e Carlotto Spinola (15 luglio 1411)24. Ma il titolo ebbe comunque vita breve e consistenza fragile, come dimostra il caso dell’ex doge Tommaso da Campofregoso allontanato nel 1421 da Genova a causa della sottomissione della città a Milano. Per compensarlo della perdita del dogato gli furono ceduti i territori di Sarzana, Sarzanello, Castelnuovo, Falcinello e Santo Stefano, con divieto di alienazione se non a Genova (la città li deteneva stabilmente dal 1413). Tali domini furono uniti ad altre località tolte militarmente a Gabriele Malaspina nel 1416. La signoria composita, ma indubbiamente concentrata nella Lunigiana vescovile, fu ufficializzata il 15 novembre del 1421 da Oberto Senestraro, all’epoca “visconte di Lunigiana” perc onto di Genova25, ma quando, nel luglio 1422, Tommaso chiese l’accomandigia e la protezione di Firenze per cinque anni, con tutti i castelli, le fortezze e le terre che possedeva, lo fece come semplice dominus terre Serrezane et aliorum locorum26.

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Non è più il caso, dopo questi esempi, continuare l’inseguimento dell’uso dei titoli imperiali da parte sia del vescovo, sia di avventurieri o dominati locali. Da un lato è impossibile spogliare sistematicamente a questo fine una documentazione tanto ampia quanto dispersa e nella maggior parte dei casi inedita; dall’altro quanto emerge casualmente dalle fonti sembra attestare il ricorso continuo a un formalismo giuridico-amministrativo ereditato dal passato, ma privo di corrispettivi concreti27.

Tra tardo medioevo ed età moderna mostra una certa resilienza, a prescindere dall’alternarsi degli officiali nei diversi dominati e l’elevata presenza di feudi relativamente indipendenti, anche il concetto di “provincia” di Lunigiana, indubbiamente retaggio federiciano, pur in assenza di una vera e propria provincia definita. Lo troviamo qualche volta utilizzato anche nella documentazione privata accanto al più diffuso e generico Lunigiana, ma – pare – sempre in relazione a un contesto genericamente imperiale e non vescovile28. Interessante da questo punto di vista una splendida mappa del 1759 dedicata da Giuseppe Allegrini a Giovanni Manfredi Malaspina, marchese di Filattiera e Terrarossa: il tiolo «Carta della Provincia della Lunigiana» campeggia su un mosaico di domini dai diversi colori circondato dal «Genovesato» e dagli «stati» di Reggio e Lucca, in cui i confini corrispondono ad est al crinale appenninico e a ovest a una linea non meglio definita, che sembra includere nella regione la bassa val di Vara. Nella dedica al marchese il riferimento all’«imperial Provincia di Lunigiana» è esplicito e ripetuto, nonostante l’evidente inesistenza della provincia stessa, usato strumentalmente accanto all’aggettivo “imperiale” per ottenere il gradimento e il favore del destinatario29.

Provincia di Lunigiana 1786
Fig. 14 Carta della Provincia della Lunigiana
Nàrodni Archiv Praha, Rodinný Archiv Toskánsckých Habsburku, Lunigiana,Barga, Pistoia, 1786, ms 35, 380a

Con la fine dell’avventura del Castracani si palesarono in maniera ancor più evidente le forze esterne tese ad avere il controllo della vallata del Magra, dalla foce al passo della Cisa: nella prima metà del XIV i comuni di Pisa, Lucca e Genova, in seguito gli stati regionali genovese, milanese e fiorentino, oltre al ducato estense. Queste potenze elaborarono strategie diverse per estendere la loro influenza sulle numerose signorie e comunità della zona, perlopiù malaspiniane e solo in parte ancora vescovili. Pur nella diversità delle strategie, gli stati regionali interessati puntarono innanzitutto ad avere il controllo di una delle due “quasi-città” che caratterizzavano la val di Magra: Pontremoli a nord, vicina al passo montano principale e ben legata alla Val di Vara e ai passi emiliani, e Sarzana a sud, con lo sbocco a mare agganciato alla Francigena. In realtà nessuno di questi due centri, tardivamente elevati a rango di città, fu mai in grado di diventare centro politico, demografico e strategico di un territorio che comprendesse i numerosi e dinamici dominati della zona30.

Alla metà del XIV secolo iniziò l’espansione dei Visconti con l’occupazione di Pontremoli che si assestò nel luogo nel periodo sforzesco e ne mantenne il dominio – ma con alterne vicende – fino agliinizi del XVII secolo31. Contemporaneamente continuò a occidente l’espansionismo genovese, attuato pragmaticamente ora con acquisti, ora con accordi, ricorrendo a campagne militari o all’affidamento di comunità a personaggi che riteneva sotto la sua influenza. Si deve comunque notare che per gran parte della seconda metà del XV secolo Genova fu sottoposta allo stato milanese e che in questo periodo il suo allargamento in Lunigiana si dovette in gran parte al Banco di San Giorgio. L’ente, nato nel 1407 come consorzio di pubblici creditori per consolidare il debito pubblico del comune, nel corso del tempo ampliò considerevolmente il suo raggio di azione, arrivando a gestire «l’intero debito dello stato, la quasi totalità delle sue risorse fiscali e larghe estensioni del territorio»32. Firenze si interessò alla Lunigiana solo all’inizio del XV secolo e prevalentemente in funzione anti-viscontea tramite la sottomissione e acquisizione di alcune località, fino a che, nel 1451, cercò di gestire in maniera più centralizzata quella lontana porzione di Toscana creando il capitanato di Lunigiana con sede a Castiglione del Terziere33. Si diffuse quindi la pratica di stipulare contratti di accomandigia con le piccole comunità e i feudi parzialmente indipendenti. L’istituto nato verso la metà del XIV secolo si diffuse con particolare vigore all’inizio del Quattrocento. L’accomandigia, garantendo protezione in cambio della fedeltà e dell’appoggio in tempo di pace e in guerra, permetteva alla dominante -in Lunigiana a farne largo uso fu appunto Firenze – di ampliare lap ropria sfera di influenza legando a sé numerose piccole signorie34. Si trattava di un accordo abbastanza standardizzato, ma allo stesso tempo versatile, che poteva essere adattato alle circostanze e dosato in relazione ai rapporti diforza35. Un altro stato territoriale a manifestare interessi in Lunigiana fu quello estense, anche se solo per una manciata di domini36.

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Oggetto di, e contemporaneamente freno a, queste brame esterne era una numerosa e assai dinamica congerie di potentati signorili, le cui vicende sono tramandate da una documentazione molto ampia, per lo più inedita e purtroppo dispersa in numerosi archivi diocesani, statali e privati. Alcune opere a carattere erudito locale del XIX secolo – prima fra tutte la Lunigiana feudale del Branchi – consentono di seguire a grandi linee le vicende di questo e quel marchesato, ma il taglio degli studi è strettamente politico istituzionale, così come la tipologia della documentazione utilizzata.

La frammentazione della Lunigiana in numerosi e dinamici dominati -costante della sua storia dal medioevo fino a tutta l’età moderna – è all’origine del paradigma dell’emarginazione politica e dell’arretratezza economica della regione. Secondo questa visione sono state proprio le divisioni ancestrali di matrice feudale, unite alla debolezza dei centri demici del territorio, a impedire la creazione in loco di uno stato a base cittadina oppure il confluire dell’area sotto il controllo di un’unica dominante. La mancata evoluzione in senso statale avrebbe aggravato l’economia locale già debole, perché preminentemente montana e priva di grandi centri di scambio, condannandola a una condizione di emarginazione e di scarso rilevo su scala nazionale. Esito finale, dimostrazione e insieme concausa ancora attiva di una persistente secondarietà, sarebbe l’attuale divisione politico amministrativa.

Tale lettura semplificata, ribadita in innumerevoli pubblicazioni, origina da una linea storiografica più articolata e complessa che è stata in auge fino alla metà del secolo scorso e che individuava quale «missione storica della città medievale» l’unificazione del territorioattra verso il processo di comitatinanza37. In questa visione la città e la sua manifestazione politica – il comune- erano espressione dei ceti nuovi borghesi in contrapposizione con gli elementi feudali del contado: quanto i primi spingevano per la creazione di città-stato capaci di organizzare sotto di sé le forze vive e operanti nel territorio e promuovere le attività economiche e gli scambi; tanto i secondi agivano in senso contrario al fine di mantenere intatti i loro privilegi signorili e le rendite connesse38. Ponendosi da questo punto di vista né Pontremoli né Sarzana furono veree proprie città, non tanto per la presenza / assenza del vescovo o delle mura – entrambi elementi costitutivi dell’essere città – o per il ruolo di piazze di scambio, ma per il sostanziale fallimento del processo di costruzione attorno a sé di un vero e proprio contado, capace di eliminare o indebolire le presenze feudali del territorio. Con l’inizio del Trecento secondo Gioacchino Volpe, uno dei principali esponenti di questa lettura, non solo tramontò per sempre il disegno signorile del vescovo di Luni, ma anche Sarzana diventò una realtà su cui non varrebbe più la pena di soffermarsi perché priva di «volontà e azione propria», governata da potenze «estranee». Per il celebre studioso dal tardo medioevo la sua storia «in quanto autonomo centro di vita, con fisionomia propria con personalità politica non senza rilievo, è finita. Il piccolo ruscello, venuto giù rotto e spumeggiante dall’altra roccia sorgiva, ha mescolato le sue acque con le acque di più grande fiume e sarebbe poco utile fatica cercar di ritrovarle e separarle»39. Dal canto suo Pontremoli, pur se dotata di un discreto distretto, cadde nel Trecento sotto il dominio prima veronese e poi milanese e fu soggetta nel corso dell’età moderna a diversi passaggi di mano, pur rimanendo per lunghi periodi nell’orbita visconteo-sforzesca. Parassiti e complici della debolezza di entrambi i centri furono – sempre secondo Volpe – gli elementi feudali del territorio, primi fra tutti i Malaspina «premuti, lacerati, sbocconcellati da Modenesi, Parmigiani, Genovesi, Lucchesi, Fiorentini che si insinuavano su per ogni valle quasi cingendo d’assedio la montagna; rimasti privi di ogni reddito feudale; rovinati dai debiti, dalle vendite forzate, dai litigi interminabili; divisi e suddivisi in cento rami, in cento minuscole casate, padrona ognuna di poche zolle; neghittosi, prepotenti, rapaci e larghi di impunità alla malagente degli Stati vicini che cercava rifugio lassù, danno già nel ‘400 e nel ‘500 miserabile spettacolo di sé, oggetto di pietà, di odio, di riso»40.  Ne emerge una realtà sbriciolata, preda delle brame esterne e quindi sostanzialmente comparsa, soggetto passivo dei disegni della storia. «La natura e la storia avevano fatto di quel paese, specialmente nella parte dove più signoreggiava il Vescovo, il punto di incontro di mille interessi di gente estranea; avevano posto i suoi destini nelle mani di tutte le popolazioni situate attorno attorno, ai piedi di quel nodo montagnoso dell’Appennino. Ora, venuta poco a poco a mancare la sua forza interna di coesione, cresciuta invece la forza esterna di penetrazione, esso si dissolve, si sbriciola e chi è più forte più ne prende»41.

Si tratta di una visione storiografica, benché mirabilmente espressa da uno stile narrativo potente, che oggi è stata largamente superata dagli studiosi dell’Italia tardo medievale e moderna, ma che continua ad avere un rilevante influsso sugli studi a carattere locale e soprattutto sulla mentalità corrente42. Già negli anni ’70 i lavori di Giorgio Chittolini hanno aperto nuovi e fecondi sguardi sulla signoria rurale e soprattutto sul rapporto tra questa e il governo della dominante. La ricerca recente ha smontato la visione del comune / città medievale come centro di progressiva, sistematica e inevitabile aggregazione del territorio e l’immagine monolitica dello stato tardomedievale e proto moderno43. Gli stati del rinascimento sono stati invece letti come realtà composite, caratterizzate da complessi rapporti tra più attori: il principe, i funzionari, gli enti religiosi, i corpi sociali e le signorie rurali. Sisono quindi moltiplicati gli studi riguardanti non solo il rapporto tra il potere centrale e le signorie rurali poste entro i confini dello stato rinascimentale, ma anche le ricerche sula signoria rurale in sé, sull’azione politica riconoscibile in ambito signorile, sulla dimensione economica per nulla marginale, sui rapporti tra il signore e le comunità rurali soggette44.

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Dal punto di vista squisitamente politico risulta utile ai nostri fini l’individuazione, entro la grande variabilità delle forme signorili, di due tipologie distinte e opposte di dominati: la signoria «dipendente in misura forte dal potere statale, inserita in modo pieno e simbiotico nelle strutture principesche che la legittimano e la tutelano» e quella invece «largamente autonoma che trova un proprio spazio di indipendenza (a volte totale) ai confini tra territori controllati da diverse compagini statali»45. Quest’ultima forma, come giustamente evidenziano Alessio Fiore e LuigiP rovero, fu tipica delle aree alpine o appenniniche, dove tuttavia si articolava in una ampia gamma di situazioni intermedie. Le signorie lunigianesi, però, non possono essere facilmente categorizzate dal punto di vista della maggiore o minore autonomia nei confronti del potere centrale, in quanto alcune di loro, dal punto di vista strettamente giuridico, si trovarono per variabili lassi di tempo del tutto op arzialmente autonome. Spinetta Malaspina riuscì, dopo la morte del Castracani, non solo a recuperare quanto perduto, ma accrescere ulteriormente i suoi possedimenti e dargli una discreta continuità territoriale, muovendosi con spregiudicatezza e arguzia nelle relazioni con l’Impero, i Della Scala, Firenze, Lucca e Pisa e perseguendo una politica di acquisto sistematico di terre46. Patrizia Meli ha recentemente dimostrato il ruolo chiave giocato da Gabriele Malaspina, marchese di Fosdinovo, nell’espansione fiorentina in Lunigiana e il suo acuto destreggiarsi nei rapporti con gli altri stati. Unico marchese di Fosdinovo dal 1467, scelse inizialmente la repubblica di Firenze come suo referente politico; con l’arrivo di Carlo VIII nel 1494 si appoggiò invece al ducato sforzesco, riuscendo così a manteneree ingrandire il proprio dominio; infine abbandonò Ludovico Sforza per Genova proprio un istante prima della rovinosa caduta del duca di Milano, dimostrando «una lungimiranza e un tempismo invidiabili che gli permisero di anticipare sempre il momento di crisi della potenza di riferimento in favore di quella che l’avrebbe sostituita, almeno in Lunigiana»47.

Le vicende di Spinetta e di Gabriele Malaspina sono indubbiamente significative, ma le ricerche per ora non consentono di confrontare in maniera utile le loro scelte, politiche, militari economiche e familiari, con quelle operate dagli altri signori della zona nel medesimo periodo. Si può solo notare che molti dominati lunigianesi si trovarono tra Tre e Quattrocento in condizioni del tutto paragonabili a quelle del marchesato di Fosdinovo: territori di appena due o trecento km2 di superficie ciascuno protetto da non più di una decina di fortificazioni, con densità di popolazione ridotta, l’economia dominata dallo sfruttamento dei boschi e dall’allevamento. Per les ignorie malaspiniane l’uso di dividere l’intera eredità tra tutti i figli maschi del lignaggio, unita a un discreto tasso di fertilità, alimentò ovviamente il dinamismo portando in molti casi a un’ulteriore frammentazione dei marchesati, con corrispondente e ovvia riduzione della superficie occupata, e in altri casi a ricomposizioni più o meno effimere, dovute a legami matrimoniali, operazioni militari o alleanze strategiche. Queste continue operazioni di frammentazione e raggruppamento costituivano anche in quell’epoca una trama complicata da eguire e difficile da gestire, in primo luogo per le realtà geopolitiche interessate ad avere il controllo sulla valle. Frammentazione e dinamismo determinarono infatti per lungo tempo una condizione di sostanziale irriducibilità delle signorie entro il raggio di influenza dell’uno o dell’altro stato, che trova mirabile raffigurazione nelle mappe che rappresentano la zona nei secoli XVI-XVIII, commissionate proprio dagli stati interessati a estendervi la propria influenza militare, economica e fiscale48.

La rilevante produzione di fonti cartografiche negli stati dell’età moderna rende estremamente difficile una loro catalogazione sistematica, anche se solo per il limitato spazio lunigianese49. Grazie agli depositi digitali resi disponibili dagli archivi di stato di Genova e Firenze, nonché dal progetto Imago Tusciae, è possibile recuperare centinaia di fonti cartografiche relative alla Lunigiana prodotte per i più disparati scopi: questioni di confine, identificazione di beni, cura delle acque e delle strade50. Limitando lo guardo alle sole mappe d’insieme, per comprendere come si guardava all’area nel suo complesso, troviamo la compresenza pressoché costante di due elementi chiave: la peculiare orografia e idrografia del territorio da un lato e l’articolata disposizione dei dominati dall’altro. Tipica da questo punto di vista è una delle mappe più belle e più antiche la Pianta di Val di Magra in Lunigiana e suoi confini dell’anno 1643 prodotta nel Granducato di Toscana: i confini naturali che determinano e comprendono l’oggetto della rappresentazion esono in prima istanza le catene montuose appenniniche, appositamentes tilizzate per delimitare in maniera simbolica l’alta val di Magra; la porzione finale del Vara costituisce invece il confine naturale e politico col genovesato; sono percepiti esterni alla Lunigiana i territori dello «Stato di Genova» comprendenti appunto la sponda destra della bassa Val di Magra, tutta l’alta valle, la riviera fino a l’Avenza (e quindi anche la stessa Luni), che sono raffigurati pressoché privi diinsediamenti; al contrario le terre circondate dalle catene montuose sono estremamente ricche di abitati, posti a loro volta entro i diversi«marchesati e luoghi che in detto stato si trovano» contornati concolori diversi, che attraversano i crinali o si intrecciano in maniera disordinata nel fondo valle51. Analogo, anche semeno ricco e dettagliato, un coevo disegno prospettico di parte della Lunigiana finalizzato a informare il Granduca sulle strade che dalla Lombardia e dal Modenese attraversano la zona, con contornati di giallo «li marchesati o altri stati che non appartengono a Sua AltezzaSerenissima» (fig. 15)52.

pianta archivio di stato di Genova pianta archivio di stato di Firenze
Fig. 15a Pianta di Val di Magra in Lunigiana e suoi confinidell’anno 1643 Archivio di Stato di Firenze Fig. 15b coevo disegno prospettico di parte della Lunigiana.Archivio di Stato di Firenze

La situazione appare sostanzialmente inalterata – pur con le ovvie modifiche dei confini interni – un secolo e mezzo dopo in due carte del tutto simili, conservate a Genova e a Praga e illustranti la frammentazione geopolitica della Lunigiana: «il colorito di rosso è il Stato della Serenissima di Genova. Il colorito di giallo è il Stato del Granduca. Il colorito di verde sono li Stati dei SS.ri Marchesi Malaspina, tutti feudi imperiali» (fig. 16)53.Tra i due estremi cronologici troviamo diverse carte dalle caratteristiche molto simili fra loro, per lo più di matrice granducale, ma anche commissionate dallo stato genovese54; si differenziano invece per stile grafico e in un caso anche orientamento le poche mappe conservate a Milano, comunque indicanti, pur in maniera sommaria e sprecisa, i diversi feudi della Lunigiana in relazione a crinali, fiumi e costa55. Di areale più limitato, concernenti per lo più le questioni di confine tra la Repubblica di Genova e il Granducato sono le mappe prodotte dal ducato estense56.

feudi in Lunigiana feudi in Lunigiana
Fig. 16a e b Due carte pressoché uguali conservaterispettivamente negli archivi di Genova e di Praga illustranti la frammentazione geopolitica della Lunigiana

Se il mosaico dei dominati in continua ricomposizione e ridefinizione nello spazio tra gli stati maggiori è ciò che caratterizza politicamente la val di Magra tra Medioevo e Restaurazione, non è chiaro quali effetti questa situazione – estremamente dinamica ma anche incredibilmente costante nel tempo – abbia avuto su l’economia, il tessuto insediativ oe, infine, sul rapporto tra comunità e territorio nella relazione tra senso di appartenenza e pluralità di confini.

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