II.4 – E Lunigiana sia
E. Salvatori, Il fegato del vescovo – II.4 – E Lunigiana sia
Nell’XI secolo lo spazio lunigianese doveva quindi apparire ai suoi abitanti un complicato patchwork di domini diversi, molti dei quali già protetti da castelli1. Nonostante l’estrema frammentazione, anzi forse proprio per ovviare ad essa, è in questo periodo che si assiste alla nascita del macro-toponimo: accanto all’aggettivo geografico Lunensis cominciamo infatti ai ncontrare il sostantivo “Lunigiana”. Le attestazioni non sono molte e, inizialmente, non particolarmente parlanti.
La prima in assoluto che mi sia riuscito trovare data al 1020 in un diploma di Enrico II all’abate di S. Salvatore di Sesto (Capannori –Lucca): tra i numerosi beni confermati è elencata anche una corte que dicitur Lunisana prope Pratillonem2. E’ una traccia che non dice molto: non abbiamo infatti strumenti per capire per quale motivo una corte situata presso Montopoli (Pisa), fosse chiamata Lunigiana. Provenienza del proprietario? Etimologia diversa del toponimo?
Più indicativa una traccia della seconda metà del secolo (1069), quando Gerardo qui vocatur de Lunixana e suo figlio Ragimondo donarono alcuni beni ai canonici di Parma3. Dato che i due donatori abitavano a Reggio, città posta oltre il crinale appenninico che separa la val di Magra dall’Emilia, la dichiarazione di provenienza usata da Gerardo come identificativo testimonia l’abitudine della popolazione locale di denominare lo spazio al di là del crinale come “Lunigiana”.
La terza menzione ci presenta invece una donna, Lunixana o Lunisiana, che intorno al 1085 restituì al signore del castello di Trebiano una terra da lei ricevuta in controdote dal marito nel territorio di Licciana4. Geo Pistarino ha dato molto rilievo a questa attestazione che, a suo dire, sarebbe espressione «di un modo di sentire» della popolazione locale, «di un’idea che si porta nella mente e nel cuore»5, in sostanza di un territorio già dotato di identità, tanto caro ai suoi abitanti da ispirare persino gli usi antroponimici. Personalmente sarei molto più cauta nel valutare quello che di fatto non è che un hapax: in nessun altro documento o opera letteraria troviamo infatti l’antroponimo femminile “Lunigiana”. Il Codice Pelavicino con i suoi 529 documenti presenta ben 365 occorrenze femminili per un totale di 171 forme nominali diverse 6: un corpus di antroponimi ricco, in cui però sono molto rari i nomi propri che richiamano i luoghi, quasi sempre relativi – come è comprensibile – a località lontane. Troviamo così attestate donne chiamate Florentia, Lombarda / Lombardia, Plasenzia, Sarda, Todesca / Tedesca, e una sola Carrarese, moglie del signore di Fosdinovo7. I meccanismi che portano, entro una comunità rurale, alla scelta dei nomi propri sono articolati, complessi e di non facile analisi, soprattutto per tempi così risalenti come nel caso citato. La menzione solitaria di una signora chiamata Lunigiana abitante a Trebiano e proveniente da Licciana non consente – a mio avviso – di celebrare il dato come indicativo di una forte presa di coscienza identitaria della popolazione lunigianese8.
Quello che sappiamo per certo è che nel XII secolo il macro-toponimo Lunigiana comincia ad essere usato per indicare un territorio ampio e articolato, che aveva come nucleo / radice Luni e che comprendeva almeno il bacino del Magra. Nel 1141 nella concordia che Guglielmo e Opizzo, marchesi Malaspina siglarono col comune di Piacenza, i marchesi si impegnarono a far giurare l’accordo dai loro uomini tranne quelli de Lunexana, ove inoltre non consentivano la circolazione di monete piacentine9. Nel contesto della concordia – che secondo Romeo Pavoni era finalizzata a dare a Piacenza il controllo dell’alta val di Taro10 – la Lunigiana risulta un territorio riconoscibile, indipendente, esterno e contiguo allo spazio a cui era interessata la città lombarda.
Un documento più significativo, perché espressione di un sentire tutto interno al territorio lunigianese, è quello che vede nel 1172 il comune di Genova stringere un vero e proprio accordo militare con i treguani della Lunigiana, al fine di restituire il castello di Trebiano ai suoi legittimi detentori, tali Parente e Giustamonte 11. I treguani Lunesanepromettono ai consoli genovesi di assediare il castello a loro spese peralmeno otto giorni (a pagamento se le operazioni continuano oltre iltermine) e a restituirlo ai legittimi detentori appena riconquistato. I loro nomi li conosciamo, ma purtroppo non appartengono – eccetto un caso – a personaggi identificabili. Portavoce è Gerardo figlio di Guglielmo da Fosdinovo, membro della famiglia dei signori del luogo, che sappiamo in contrasto con il vescovo nella seconda metà del XII secolo12; i suoi soci – Guglielmo de Raffa, Greco di Filattiera e Albertino di Pontremoli – sono invece privi di ulteriori riscontri documentari. Sul contesto che portò all’accordo militare si possono fare solo supposizioni. Il castello di Trebiano è confermato al vescovo di Luni da Ottone I nel 963 e da Federico I nel 118513; quindi con tutta probabilità Parente e Giustamonte erano eredi – non sappiamo a quale titolo – del visdomino locale, che l’accordo dice defunto14. Secondo Gioacchino Volpe, sarebbe stata proprio la morte del visdomino trebianese a far esplodere il conflitto interno ai signori per la spartizione del castello, forse anche a seguito di un tentativo vescovile di porre fine alla successione ereditaria nel visdominato e riprendere il pieno controllo della carica. Effettivamente, l’alleanza di Parente e Giustamonte a un dominus di Fosdinovo e a Genova fa pensare a un’operazione di recupero sgradita al vescovo, in quel momento vicino allo schieramento filo imperiale, filopisano e antigenovese15. Nei mesi successivi a questa alleanza, Genova reagì militarmente anche a una “congiura” guidata dai Malaspina nella riviera di Levante, coadiuvata dagli uomini “della Lunigiana, di Passano e di Lavagna”16. Non ci sono elementi certi per dire se i due eventi fossero tra loro correlati, ma è evidente che in quegli anni lo spazio lunigianese vide le famiglie signorili del luogo schierarsi con diverse modalità con le parti in lotta. Per “liberare” Trebiano si venne a creare una sorta di consorzio temporaneo – i treguani di Lunigiana -, mentre nella reazione dei Malaspina abbiamo semplicemente il ricorso dei marchesi ai loro homines Lunisiane: in entrambi i casi il macro-toponimo venne usato come descrittore comune a un insieme di famiglie signorili ed enti presenti nel territorio. Rispetto a homines, il termine treguani fa intravvedere un’organizzazione più strutturata, che risentiva – quantomeno nella scelta terminologica – dell’influenza deicomuni vicini. Ricordiamo infatti che “consoli treguani” agivano a Lucca almeno dal 1121 ove dalla fine del XII formarono una curia con competenze specifiche17; a Pisa i treguani sono nominati nei brevi dei consoli del 1162 e 116418.Si trattava in entrambi i casi – pur con le inevitabili differenze – di figure chiamate a garantire la pacifica soluzione delle controversie, a fare da arbitri nelle liti che potevano mettere a rischio la concordia cittadina. Nel nostro caso, invece, il termine “tregua” è usato come sinonimo di alleanza militare, dato che i treguani giurano ai consoli genovesi di presenziare cum forcia et posse tregue nostre ad obsidendum et capiendum castrum Treblani … cum tot equitibus et peditibus tregue. La “tregua” originale – nel senso di assenza o sedazione di conflitto – si è probabilmente realizzata a monte, ossia è stata la condizione necessaria per costruire l’alleanza, da cui ha preso il senso traslato.
Nel 1172 i treguani si impegnarono a osservare l’accordo fino aquando fosse stato valido e a farlo giurare ai loro successori <ahref=”#fn19″ class=”footnote-ref simple-footnote” id=”fnref19″role=”doc-noteref”>19. La tregua si era quindi costituita a valle un processo di scelta / nomina di magistrati, che si sperava di mantenere per tutto il periodo necessario e forse anche oltre; l’episodio, tuttavia, ebbe esito effimero e non diede origine ad alcuna magistratura stabile. Si deve quindi respingere il giudizio di Ferruccio Sassi quando sostiene che, in analogia a quanto accadeva a Lucca, i treguani di Pontremoli – tra i treguani Lunesane c’è un console di quel comune – fossero una vera e propria magistratura civile «intesaa custodire in generale la pace sociale e a sottrarre alla viva lotta delle fazioni»; e che fossero «quasi veri consoli de Lunexana, cioè d’un superorganismo territoriale che vuole altresì essere giuridico a carattere contrattuale e volontario, con basee intendimenti superanti la ristretta cerchia delle ambizioni deisingoli»20.
La Lunigiana nelle carte del XII secolo era un territorio certamente noto con tale nome ai suoi abitanti e alle realtà vicine, ma dai confini incerti e non connesso ad alcun organismo o entità unitaria. Il macro-toponimo pare anzi emergere proprio a compensazione della mancanza di un forte ente territoriale, utile per definire una realtà dai confini naturali abbastanza evidenti (il bacino imbrifero del Magra), ma politicamente frazionata, punteggiata da dominati diversi legati tra loro da relazioni estremamente dinamiche. Ne è conferma il fatto che proprio in questo periodo si nota lo scollamento palese tra terminologia istituzionale – comitato, marca, episcopato – incapace di definire da sola la realtà multiforme e articolata che si è venuta a creare, e il macro-toponimo, che comprende il tutto, ma non lo organizza. Ne sono conferma i termini geografici usati dagli stessi marchesi Malaspina – Corrado di Obizzo e Obizzo di Guglielmo, nel 1220, all’atto della divisione del patrimonio che oggi diremmo posto in Lunigiana, ma che loro con maggior precisione giuridica pongono invece in episcopatu Ianuensi et in episcopatu Lunensi et in episcopatu Brugnati<ahref=”#fn21″ class=”footnote-ref simple-footnote” id=”fnref21″role=”doc-noteref”>21. La più bella testimonianza di questa regione di fatto, dotata di una sua identità geografica, ma priva di un corrispettivo istituzionale, lo troviamo nel corpus trobadorico dei Malaspina, in particolare nel planh scritto prima del 1258 da Lanfranc Cigala in onore ditale Berlenda (Era non chant ges per talan de chantar)<ahref=”#fn22″ class=”footnote-ref simple-footnote” id=”fnref22″role=”doc-noteref”>22. Il lamento per morte della nobildonna, spentasi in circostanze ignote in Lunigiana, vede la regione indicata prima come provincia:
E doncs per que no mor tota·il proenza / ont il mori, e tuit cil que·i istan? / C’oimais en dol et en consir viuran, /e zo li er piegz de mort, a ma parvenza.
E allora perché non muore tutta la provincia dove ella morì e tutti quelli che vi risiedono? Ormai vivranno nel dolore e nel rammarico e questo sarà per lei [= la provincia] peggio della morte, a mio avviso.
poi come contea:
Pero si vals hom non la pot comtar / [senes] son ops, mas a nostra dolor, / car un comtatz non l’era pron d<spandir=”rtl”>’onor, / per que lla vol Dieus en cel far regnar;
Ma non si può riferire la sua morte senza suo vantaggio, ma a nostro dolore, perché una contea non le era abbastanza onorevole, in quanto Dio la vuole far regnare in cielo.
e infine come regione personificata
Luresana pensatz de penedenza / que Dieus vos uol confondre derenan /e pareis ben al sobre mortal dan / c’aves aüt que vostra mortz comenza,
Lunigiana pensate a far penitenza poiché Dio vuole ormai distruggervi e appare chiaramente dalla perdita più che mortale che avete subito che la vostra fine è vicina.
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