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II – Decostruzione e ricostruzione e II.1 – Il buio oltre la siepe

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E. Salvatori, Il fegato del vescovo – II – Decostruzione e ricostruzione e II.1 – Il buio oltre la siepe

Lo storico della Lunigiana potrebbe cominciar dal XII secolo il suo cammino, se non pungesse anche lui, poco o molto, la curiosità delle origini. Avanti il XII secolo, poco meno che tenebra o tenuissima lucedi alba lontana: pochi nomi di Vescovi e di Conti o Marchesi, qualche ricordo di una città di Luni e di un territorio lunense aggregato alla marca di Toscana o alla marca ligure1.

Così Gioacchino Volpe, all’inizio del suo felicissimo lavoro sulla Lunigiana, metteva in guardia tutti coloro che, punti dalla curiositàdelle origini, volessero cercare a monte della “siepe” del XII secolo e riempire di significato le tenui tracce rimaste del periodo tardo antico e alto medievale nella zona di passaggio tra Liguria e Toscana. Un invito alla prudenza rimasto, a dire il vero, scarsamente ascoltato, in parte perché è proprio della curiosità dello scienziato cercare diilluminare i punti oscuri e in parte perché il mito delle origini è sempre stato tra i temi più suggestivi e ambigui della storiografia.

Come abbiamo visto, gli argomenti “forti” sulla nascita ed evoluzione della Lunigiana storica guardano in particolare al municipio romano e soprattutto alla sua eredità, raccolta in età tardo antica dal vescovo. Secondo Geo Pistarino la congiuntura che avrebbe innescato in Lunigiana il processo di autocoscienza identitaria sarebbe da individuare in particolare tra VI e VII secolo, nel momento in cui la guerra greco gotica e l’argine bizantino allavanzata longobarda avrebbero determinato un «processo di ellenizzazione ..particolarmente intenso». In sostanza la breve, ma energica, resistenza all’avanzata barbarica, tenuta a bada al di là del crinale appenninico, avrebbe determinato il primo embrione dell’unitarietà lunigianese. Le tracce di questo rafforzamento dell’identità romano-bizantina si ritroverebbero nelle professioni medievali di legge romana e nella «relativa frequenza sia dei resti archeologici e monumentali, sia dei toponimi bizantini»2.

Tale lettura affonda le sue radici nella generale accettazione da parte degli studiosi del Novecento della visione imperialista e nella loro familiarità alla guerra di trincea, a cui possiamo aggiungere l’influenza della Guerra Fredda della seconda metà del secolo e, ancora al di sopra, la diffusa idea dello Stato come inevitabile meta dell’evoluzione di un popolo3. In una visione in cui il confine è sempre inteso come la linea difensiva che separa civiltà e barbarie, la sua cristallizzazione sarebbe avvenuta in Lunigiana all’epoca dello scontro tra Bizantini e Longobardi, che avrebbe di conseguenza definito anche l’indole del suo popolo.

Oggi storici e archeologi, forse anche perché adusi alle mille e contrastanti appartenenze e identità del mondo globalizzato, si muovono su un terreno molto meno ideologizzato e seguono visioni della storia che privilegiano i contesti complessi. Le professioni di legge che si ritrovano in documenti del pieno medioevo hanno perso ormai da tempo il significato di pura rivendicazione etnica, per diventare spesso dichiarazione di condizione giuridica in questioni ereditarie. Nelle carte di X-XII secolo tali dichiarazioni si ritrovano spesso in atti di donazione, che producono effetti diversi a seconda che si applichi il diritto longobardo oppure alcuni principi rispecchiati nelle raccolte della lex romana. In sostanza sarebbe la caratteristica della transazione a richiedere che si specifichi la tipologia del regime successorio degli attori, non la volontà degli attori di rivendicare le rispettive origini etniche4.

Le più recenti ricerche sul funzionamento della frontiera nel mondo tardo romano e alto medievale tendono a sottolineare la sua permeabilità, il suo funzionare più come membrana cellulare che come barriera. Relativamente ai kastra bizantini si ritiene che ci fossero impiegati pochi uomini e che avessero più un ruolo di presidio simbolico in punti strategici, che non quello di tutela delle popolazioni civili in caso di conflitto militare. Gli studiosi sono quindi oggi ben poco propensi a riconoscere un significato identitario e bellico a scarse e ambigue tracce toponomastiche e a rari rinvenimentidi età tardo antica; tendono al contrario a non amplificare suggestivamente il dato archeologico o storico a disposizione, guardando invece a quello che esso effettivamente comunica e rileggendo criticamente quanto raccolto in passato5.

Riguardo alla toponomastica lunigianese, se oggi è generalmente accettata l’etimologia bizantina di Filattiera, assai meno condivisa è la sua identificazione con il kastron Soreòn nominato da Giorgio di Ciprio, che ha fatto consumare diversi litri di inchiostro agli storici del passato6. A Zignago gli scavi hanno evidenziato i resti di un castello di età altomedievale di dimensioni ridotte, con probabile funzione di controllo sul territorio; mentre a Filattiera l’articolazione dell’insediamento bizantino fa pensare più a unarea di sosta e transito, che a un vero e proprio limes difensivo contro la discesa longobarda7. Ugualmente ci riconducono a un contesto di complessità le analisi di Ermanno Arslan dei rinvenimenti monetari a Luni, che sembrano delineare la città tardo antica come «unarea di libero scambio, non sappiamo quanto estesa nel territorio, nella quale le transazioni commerciali avvenivano con valuta sia longobarda che bizantina, che quindi vi circolava liberamente»8. In sostanza, quel poco che le ricerche recenti illuminano del buio tardo antico lunigianese ci dicono che la zona di Filattiera non fosse all’epoca strategicamente rilevante, che le altre fortificazioni tardo antiche e/o alto medievali lunigianesi non avessero relazioni reciproche e che Luni potesse funzionare come porto “aperto”. Sono risultanze che inducono, come diretta conseguenza, a considerare estremamente improbabile l’esistenza di uno sbarramento difensivo anti-longobardo9. D’altro canto, gli studi più recenti sull’Italia longobarda tendono a escludere ovunque l’esistenza di un confine lineare, una vera linea di frontiera, intesa come una successione continua di fortificazioni occupate da guarnigioni stabili10. Sono ricerche che di fatto demoliscono «lo storytelling bizantino longobardo, che ha funzionato, in qualche caso, come stimolo alle ricerche sul campo, ma [che] spesso si è rivelato inconcludente se non, addirittura, sviante»11.

Ugualmente non hanno retto all’evolversi della ricerca altre ipotesi, un tempo largamente condivise, sull’estensione della diocesi tardoantica e sul rapporto tra i vescovi di Luni e i Longobardi, sempre nell’ottica della presunta caratterizzazione ab antiquo della regione. Non è certo questa la sede per ripercorrere le tracce della presenza cristiana a Luni, che vede il primo vescovo menzionato consicurezza nel 501 e pochi altri dati interessanti, ricavabili dalla corrispondenza tra Gregorio Magno e il vescovo Venanzio tra il 594 e il 60312. Sono fonti che purtroppo nulla cidicono sull’estensione della primitiva diocesi, quella che – secondo Ubaldo Mazzini e in seguito Geo Pistarino – avrebbe determinato i confini della Lunigiana storica che si ricavano dalle fonti di XII secolo. Alla teoria della continuità tra il distretto amministrativo civile poi religioso tra tarda antichità e alto medioevo – accettata da questi studiosi -, si deve poi aggiungere la teoria che Ubaldo Formentini ricavò dalla storiografia sua contemporanea, ossia della continuità tra pagus preromano, romano e distretto plebano, in cui l’edificio della pieve sostituisce il santuario pagano, punto di riferimento dei conciliabula13.

Come è noto sulle pievi della diocesi di Luni non abbiamo dati anteriori al secolo X e la maggior parte degli edifici è nominata per la prima volta solo nel privilegio pontificio di Eugenio III del 114814. Sul fronte archeologico le conoscenze sull’estensione e gli insediamenti dell’agerLunensis sono ad oggi estremamente ridotte. Le ricognizioni di superficie organizzate da Bryan Ward-Perkins tra fine anni ‘60 e inizioanni ‘80 del XX secolo si sono limitate alla bassa Lunigiana e hanno evidenziato numerose piccole fattorie in crisi già nel II sec. d.C. e poche grandi ville con tracce d’uso fino VI sec. d.C.15. Viceversa, la presenza romana in zone periferiche come la Val di Vara risulta allo stato attuale degli studi pressoché nulla, forse perché la zona era «interessata da una frequentazione prevalentemente legata allo sfruttamento delle risorse naturali, attraverso nuclei di popolazione ligure romanizzata»16. In questo silenzio assordante, solo nuove sistematiche campagne di ricognizione e di scavo nel territorio ed in corrispondenza degli edifici plebani potrebbero fornire qualche dato sull’insediamento rurale tardo antico e alto medievale, che attualmente ci sfugge quasi del tutto. Siamo quindi tenuti, applicando con rigore il metodo storico, a un prudente silenzio, che può solo guardare, per confronto, a quanto evidenziato in altre zone meglio documentate dal punto di vista storico o archeologico.

Da questo punto di vista è opportuno ribadire che gli studi recenti sul territorio rurale romano hanno messo in seria crisi il modello “paganico – vicano”, che per lungo tempo ha imperato e che è stato appunto ispiratore della teoria di Formentini. Secondo questa lettura, l’insediamento appenninico sarebbe stato caratterizzato da distretti (pagi) che comprendevano all’interno case sparse, abitati compatti (vici) e santuari, questi ultimi poli di riferimento religioso del pagus; tale struttura si sarebbe mantenuta anche in epoca romana, per poi riemergere in età tardo antica e medievale, con la trasformazione del santuario in pieve. L’assunto, già messo fortemente in discussione da Pier Giuseppe Sironi e da Adriano Cavanna per il milanese e da Pier Toubert per il Lazio, è stato definitivamente rigettato dalla storiografia più recente. Andrea Castagnetti ha in particolare sottoposto a critica serrata proprio le argomentazioni di Ubaldo Formentini e ha sostenuto come nei primi secoli del medioevo l’assetto plebano fosse in continua evoluzione17. Tale dinamismo avrebbe almeno una controprova anche per la diocesi di Luni: la pieve di Castello in Garfagnana, di pertinenza del vescovo lunense nel 1148, sarebbe di costituzione relativamente tarda, non essendo la chiesa attestata nella documentazione lucchese prima del Mille, costruita probabilmente agli inizi del XII secolo18.

Nel 2002 Luigi Capogrossi Colognesi ha dimostrato come la continuità del sistema paganico – vicano non sia supportata da alcuna prova concreta e pare anzi smentita da diversi indizi19; pochi anni dopo Michel Lauwers ha ben chiarito come il processo di deterritorializzazione, che si è prodotto tra antichità alto medioevo per tutte le strutture e istituzioni imperiali, ha ovviamente riguardato anche la diocesi ecclesiastica. Questa, nonostante l’integrazione tra chiesa e stato a partire Costantino, può essere intesa come struttura territoriale di inquadramento dei fedeli solo tardivamente e non è più in alcun modo accettabile il disegno di ipotetiche mappe diocesane tardoantiche o alto medievali operato sulla base di fonti del pieno o tardomedioevo20.

Un’ultima osservazione è infine necessaria riguardo alla conversione che sarebbe stata operata dal vescovo lunigianese Leodegar in età longobarda, come verrebbe attestato da una celebre epigrafe studiata daUbaldo Mazzini, ripresa in numerosi studi e di recente ripubblicata daEgidio Banti21. L’epitafio, inciso su una lastra di pietra mutila, oggi nella chiesa di San Giorgio di Filattiera, ricorda un personaggio privo di nome, morto intorno al 752 e di rilevante livello sociale, che avrebbe fatto a pezzi gli “idoli” dei pagani, reindirizzato altri verso la fede, aiutato i bisognosi, pagato le dovute decime e infine fondato un ospedale e una chiesa. Mazzini, che per primo provò a ricostruire il testo mancante dell’epigrafe, si disse certo che riguardasse il vescovo Leodegar (o Leutecario o Lentecario) della prima metà dell’VIII secolo22. Il ruolo ecclesiastico del personaggio, per altro non attestato da alcuna fonte coeva e messo in dubbio da Giovanni Mariotti e Ubaldo Formentini23, venne in seguito letto come «corepiscopo missionario» da Gian Piero Bognetti e Pier Maria Conti, anche in questo caso senza la scorta di solide evidenze documentarie24. La questione non riguarderebbe direttamente il tema dell’unitarietà della Lunigiana, se Geo Pistarinonon avesse attribuito proprio al vescovo Leodegar una preziosa opera «di amalgama della Lunigiana interna, lungo l’asse portante della val di Magra», a conferma della visione che gli abitanti della regione, dopo linvasione germanica, avrebbero trovato nella diocesi lunica istituzione rappresentativa e unificante, capace di resistere alla frammentazione politica25. In questo frangente lo studioso genovese accetta lidentificazione del soggetto dellepigrafe col fantomatico vescovo e quindi delimita il suo raggio d’azione all’intera diocesi, sulla scorta dell’individuazione degli edifici sacri da lui fondati nell’ospedale di S. Benedetto di Montelungo e nella chiesa di S. Martino di Durasca, posti ai capi opposti della valle. In sostanza l’attività di «propagazione del cristianesimo romano, contro i residui pagani e le resistenze ariane nella val di Magra più interna», operata tramite la distruzione di idoli e la fondazione di strutture religiose all’inizio e alla fine della Val di Magra, avrebbe contribuito a dare «una figura giuridica ed istituzionale definita» all’intero territorio26. Le ricerche più recenti hanno rivelato lestrema fragilità di questa ricostruzione: la nuova edizione scientifica della lapide esclude infatti che il testo sia relativo a un vescovo27,che sia mai esistito un vescovo di Luni di nome Leodegar e che la lapide contenga riferimenti alla fondazione dell’ospedale di Montelungo e della chiesa di S. Martino di Durasca28. In sostanza tutte le pezze d’appoggio all’azione missionaria di vescovi o corepiscopi lunensi nell’operazione di consolidamento delle strutture diocesane in età longobarda devono oggi considerarsi inconsistenti e inattendibili.

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